Dylan Dog 2003 (197-208). L'anno del bicentenario.






LORENZO BARBERIS





Spoiler alert as usual.



Il 2003 vede una sorta di "anno sabbatico" di Ruju, dove non appaiono sue storie, forse per bilanciare la saturazione dell'anno precedente. Barbato, Medda, Faraci e De Nardo si dividono abbastanza equamente le sorti della testata, con due-tre storie a testa; una puntata spetta anche a Chiaverotti, sempre meno presente, alla sua penultima storia di Dylan, al 194.



Al 197, ai disegni, esordisce il talentuoso Celoni, che tornerà anche nel Nuovo Corso del 2014 con una storia da autore completo. Qui illustra un divertissment di De Nardo molto simile al Labirinto di Bangor già apparso l'anno precedente. Se là si omaggiava più Dungeons and Dragons, qui si riprende forse più Jumanjee (1995), ma con minima variazione sul tema.



I numeri 198-199, che preparano la volata al 200, sono una doppia di Medda (forse l'unica dell'autore) con disegni di Freghieri. La storia, grazie anche all'ampio spazio narrativo concesso, risulta piuttosto convincente e ben strutturata. Tutta la vicenda ruota attorno a un corso motivazionale basato sulla Disempatia, in grado di scatenare l'aggressività, fino a spingere all'omicidio. Anche Dylan Dog, che si infiltra nel corso per indagini, ne risulta soggetto e giunge ad atti piuttosto estremi, non solo diverse aggressioni ma perfino una tentata violenza sessuale. Anche il finale, dove il cattivo non è ucciso, ma ripagato della sua stessa moneta "disempatica", divenendo la "regina" del re del carcere che lui stesso ha formato, è particolarmente cruda per gli standard bonelliani.



Ma Medda, giocando abilmente su sottintesi e non detti, riesce a farla passare, con un albo crudo ed efficace, che dimostra come i limiti bonelliani si possano elasticizzare. La storia indaga bene il lato violento del personaggio, di solito minimizzato, e ovviamente quello della società, senza cadere nello stucchevole, rischio diffuso con Dylan Dog.






Sclavi non torna nemmeno nel 200, affidato alla Barbato, ove per la prima volta si lanciano in cover Groucho e Bloch, mai apparsi (Bloch tornerà in cover col suo abbandono, nel nuovo corso del 2014). Una cover però convenzionale nell'impostazione, non particolarmente efficace; titolo tautologico, che gioca sull'indirizzo di Bloch. Molto meglio l'apparizione spuria di Bloch sull'Almanacco del 1999 (in cui la violazione delle regole non ha motivazione specifica), con un Bloch cattivo (anche se perché di una realtà alternativa).







Sclavi nel 200 firma l'editoriale, promettendo di tornare; lo farà infatti per alcune storie, e per la celebrazione successiva, il 250, e poi chiuderà per sempre.



La Barbato (che Sclavi, pare, avrebbe voluto come nuova curatrice) pare definitivamente insignita dell'eredità sclaviana con la concessione perfino di una storia celebrativa come questa, che riprende da dove era finita la - ormai lontana - celebrazione del numero 120. Là avevamo visto Dylan disperato per la morte dell'amata terrorista irlandese Lily; qui lo vediamo preda dell'alcolismo, e assistito da Bloch che rivede in lui il declino del figlio eroinomane.



L'albo, sbilanciato verso lo psicologismo davvero caro all'autrice, piuttosto che sull'orrore, svolge nel complesso la sua funzione. Stride però l'omaggio - ma qui, penso, più il voluto attacco - a un mostro sacro come lo Zanardi di Pazienza, che viene tramutato nel figlio eroinomane di Bloch, presentato come un debole quando Zanardi, all'opposto, è la forza della malvagità.



A parte questo, la Barbato gioca invece bene di incastro sui tasselli accennati della continuity dylaniata.



Viene confermato il fatto - fortemente simbolico - del numero 31, ovvero che Dylan affitta l'appartamento dal Direttore del nuovo Grand Guignol; la Bodeo 1889 recuperata nel Lungo Addio spinge Dylan a fare il detective; a Safarà trova il Galeone, dono "di un padre al figlio" che non ha mai però consegnato (e nella scena dopo vi è Xabaras che parla con Hamlin: è lui che glielo ha fatto avere, per produrne, quando sarà necessario, il risveglio per lo scontro finale del 100).



Non male anche il fatto che la collaborazione con Groucho inizia come attività di truffatori, poi risolvono un primo caso (citazione da Ghostbuster) e si fanno pagare col Maggiolino - in vendita nel quartiere a 350 sterline, ribassate a 200.



Insomma, questa parte è gradevole, ma se la Barbato dimostra di capire Dylan Dog, la sua visione di Zanardi appare un po' semplicistica (banalmente: Zanardi che fa, senza colpo ferire, una rapina con Petrilli e con l'odiato autore Pazienza?). Ma anche se vediamo Virgil come figura a sé stante, si potrebbe trovare un po' stucchevole la escalation alcool - spinelli - eroina.



Coerente con questa visione, anche un dubbio Dylan che dichiara "non ho più bevuto un goccio da allora", quando invece il fascino di Dylan, specie ai primordi, stava nell'essere un ex-alcoolista molto relativo, facile alle ricadute.



Sembra inoltre che Dylan conosca la Trelkovsky tramite Lord Wells, da una vignetta: la medium appare nel numero 25 e, in generale, sembra aver contattato Dylan autonomamente, per ragioni spiritiche.



La storia chiude con la prima cliente del numero uno, a dire, in qualche modo, che il ciclo sul passato è tornato.



Stante le critiche radicali che ho fatto della lettura di Zanardi data da Barbato, va riconosciuto almeno il coraggio di una storia con forte impronta personale, come quella che scriverà, ad esempio, nel numero uno delle Storie, "Il Boia di Parigi", volto a criticare pesantemente (e, nonostante opinione contraria online, in modo più riuscito) la Rivoluzione Francese. Come molti autori bonelliani - Medda su tutti, ma a suo modo anche Recchioni "fascista zen", tra ammissioni e negazioni - la Barbato si pone su un'estetica reazionaria.



Voglia o no (ma se è inconscio, è psicanaliticamente interessante), la Barbato dice che Dylan è il figlio prediletto (del fumetto italiano?) nonostante il "figlio biologico" avrebbe dovuto essere Zanardi. Lo Zanardi di Pazienza vive nelle storie dal 1981 al 1988, con la morte del suo autore; Dylan appare nel 1986 (nasce nel 1985) e sopravvive di gran lunga ad entrambi. Pazienza e Zanardi, autore e personaggio, per Barbato vanno annullati nel mito che si è creato di loro.



Mito che ha storia travagliata: subito Pazienza è rimosso per la sua morte d'overdose, e solo nei '90 riprende un suo culto prima sotterraneo, poi palese, che sfocia nel 2001 in un documentario, nel 2002 in un film di fiction ispirato ai suoi eroi, "Paz!". La storia della Barbato è nel 2003, e quindi probabile reazione al nascente mito.



In sostanza, la Barbato palesa la sua insofferenza verso il duo Pazienza-Zanardi, accomunati nella loro natura di tossici e di deboli; viceversa, ammira Sclavi-Dylan che, a suo avviso, partono dall'alcoolismo per superarlo, rivelando maggiore statura morale. In realtà il rapporto (del personaggio: non saprei dell'autore) con l'alcool è meno risolto di quel che sembri dire Barbato: se in Zanardi c'è una - irridente - apologia del male (ma il nichilismo di Pazienza è così estremo da relativizzare pure quella: alla fine Zanardi "è un duro, oppure un fesso pericoloso"), Dylan correttamente letto è sempre combattuto, mai risolto nella sua lotta coi suoi demoni (come intrinseco nella sua natura seriale).



Comunque, va a mio avviso premiata almeno la scelta di una impostazione personale e coraggiosa.



Al 201 si riprende con un citazionismo un po' stanco, in una storia che è un remake di Misery non deve morire di Stephen King. Disegni di Mari sempre apprezzabili, ma la formula è ormai un po' usurata e mostra l'evoluzione del citazionismo dylaniato: se in Sclavi - e nei migliori imitatori - era una fusione e reinterpretazione di elementi diversi, un cocktail micidiale, un pastiche avvelenato e postmoderno, qui diventa un remake in chiave dylaniata di un classico dell'horror, come anche questa volta con De Nardo.



Interessante, nell'Horror Post, il commento allo storico numero 200 del mese prima, dove si evidenzia sottilmente come la svolta della Barbato non sia stata così concorde: si dice che "Sclavi e Marcheselli sono stati prodighi di consigli (inascoltati) e di bacchettate sulle dita..." lasciando intendere come la direzione non sia stata totalmente condivisa. Un merito in più, obiettivamente, per l'autrice, che ha saputo proporre, almeno, una sua visione del personaggio anche contro il "padre fondatore".







Col Settimo Girone, al 202, torna di nuovo la Barbato e la sua visione del personaggio. Totalmente assente Groucho, per una rara volta, Dylan disprezzato dalle donne - l'infermiera killer, il personaggio più interessante.



Bella la copertina infernale, con Dylan/Caronte e diavoli muscolari che ricordano quelli del Signorelli. Uno Stano pittorico ma ancora di grande efficacia. Il nuovo albo dedicato a King è affidato a Roi, un Re per il Re.



Se molti precedenti omaggi, come detto, erano troppo lineari, questo della Barbato si rivela di ottimo livello nel mescolare le trame e spiazzare il lettore. La citazione di King è il mondo in dissoluzione temporale dei Langolieri, ma riletto abilmente.



Già nel 122 Dylan si era trovato intrappolato al Confine tra vita e morte; qui (due albi dopo un albo-chiave "a colori", di nuovo) si trova a essere, come da Cover, il nocchiero di un gruppo di assassini che al tempo stesso stanno per morire per l'azione delle Parche. L'azione di Samael, il serpente cosmico dell'Eden, sarebbe solo una copertura per un loro errore, ma la cosa appare volutamente ambigua per le coincidenze che vengono ad assommarsi. Quattro assassini, tutti e quattro a Londra (nel giro anzi di un ristretto quartiere) e tutti e tre destinati a morire e per di più ad essere guidati da Dylan Dog nel loro inferno (il Settimo girone degli assassini del titolo). Sembra più un voluto rituale che non una pura casualità, e comunque una storia che lascia una giusta sospensione di inquietudine.







La 203 di Medda, invece, continua la sua visione metaletteraria, già presentata ne "La prigione di carta", il 123. Se la la riflessione metadylaniata seguiva al decennale, qui segue al numero duecento, e assume nuovamente un valore interessante per il livello metaletterario che propone. Là veniva criticata, tramite la figura di un Bukowski horror, l'eccessivo buonismo dylaniato, il letterario ed esasperato gusto di porsi "dalla parte degli ultimi"; qui invece si ironizza sull'edulcorazione della serie, con un programma tv, ripreso dagli Addams (la famiglia Moonsters) che viene gradualmente normalizzato nel rassicurante "La famiglia Milford" del titolo. L'autore è poi costretto a scrivere questa serie ormai banalizzata, animato dall'odio più puro verso chi l'ha costretto all'edulcorazione, fino a divenire un assassino.



Ironia di doppio livello perché, se ironizza sulle censure televisive, certo parla anche di quelle dylaniate, ma in fondo dicendo che qui, a saperlo usare, vi è ancora un considerevole margine di libertà.



Resurrezione (204) di Tito Faraci gioca sul poliziesco a lui caro, con una riscrittura horrorifica di Challagan, poi al 205 Chiaverotti con un incubo che torna dall'infanzia di Dylan, un compagno odioso dei tempi della scuola.







Il 206 è della Barbato, nuovamente in coppia con Brindisi dopo il fortunato numero 200. Storia interessante, che la stessa Barbato (o un suo alias riuscito) spiega sul sito ufficiale di Craven Road evidenziandone la particolarità. Il "mostro" principale della storia è un pedofilo omicida, ma nonostante questa sua caratteristica non è tratteggiato come una figura demoniaca, ma come una persona normale, della porta accanto. L'autrice inoltre rinuncia alla suspense (si capisce abbastanza subito il suo ruolo) per favorire questa introspezione inconsueta. Le altre vittime sono colpevoli a loro volta: sono i testimoni (tratteggiati molto bene psicologicamente, come al solito nella Barbato, che nell'approfondimento psicologico ha il suo punto di forza), che egli inizia a eliminare, ma che anche le forze sovrannaturali del parco, gli alberi che agiscono col favore della nebbia, eliminano per la loro passività.



"Ti aspetti che si sradicassero per inseguirti come nei cartoni animati?" dice alla fine Dylan con sarcasmo all'assassino. Non siamo quindi nel campo di un horror-fantasy classico, non sono una versione dark gli Ent, gli alberi agiscono con un potere psichico che fa impazzire e quindi spesso uccide le loro vittime. Un orrore "panico", in grado di suscitare il "terrore di Pan" come le foreste d'Arcadia nell'antica Grecia, quando lo stormire delle fronde ricordava l'inquietante, ma inesistente flauto del dio Capro.







Al 207 ritorna De Nardo, con i disegni di Roi. Bella la cover iniziatica e vagamente paramassonica per questa storia su una setta diabolica. Una storia non molto apprezzata dal fandom, ma che ha alcuni pregi, a mio avviso (del resto, io sono un appassionato di sette esoteriche). Dylan si intrufola nella setta come Dylan Doyle, gustoso riferimento all'autore di Holmes (che combatte una setta nel suo primo romanzo, Uno studio in rosso).



Il 208 è di Faraci, con disegni di Cossu, "Un mondo sconosciuto". Sulla posta, si annuncia che il numero 200 ha vinto il premio Fumo di China come migliore storia, segno innegabile della salute del personaggio. La Barbato sembra prescelta come erede, ma al suo fianco si notano le interessanti interpretazioni di Medda, pur nelle presenze saltuarie, e di Faraci, che però qui è fuori fuoco, con una storia in un simil-fantasy che non decolla, in pole position nella poco ambita lotta delle peggiori storie di Dylan (per il fandom) con "Una affezionata clientela" (299) di Marzano e "Uno strano cliente" (195) di De Nardo, di poco precedente. Faraci non usa la parola cliente nel titolo e sfugge al cliché della storia di spettri, eppure riesce, qui, a mancare la storia in modo effettivamente marcato. I disegni di queste tre "meno amate dai dylaniani" sono tutte per disegni di Cossu: e se io dissento in parte sul 195 (non eccezionale, ma comunque non priva di qualche gradevole divertissment) credo che dipenda dalla difficoltà di usare un autore come Cossu, ricco di dettagli, in storie horrorifiche dylaniane. Se con un Mari o un Roi si va sul sicuro nell'effetto artistico di grande impatto, Cossu col suo stile dettagliato richiede storie ricche di minuziosi dettagli, per una rilettura accurata nel segno del citazionismo dylaniato. Quando tale scrittura latita, la crisi è in agguato.