Ico(n)




Ammiravo ieri, a casa di un amico, il videogioco "Ico" (2001). Prodotto dalla Sony per la sua playstation, l'acclamatissimo adventure 3D è incentrato sulle vicende dell'omonimo protagonista, un ragazzino mutante cornuto sacrificato dai suoi conterranei in un tempio pagano per allontanare dal villaggio il maleficio che incombe su di lui in quanto difforme. Egli viene rinchiuso in una specie di urna, da cui si libera anche per l'intervento di un'efebica fanciulla che lo accompagna nel suo tentativo di fuga. Una trama, come si può vedere, estremamente tradizionale nel videogame (e non solo), a partire dal Donkey Kong del 1981, il primo videogame con personaggi antropomorfi.

La riscrittura di Ico è innovativa nel modo in cui questa trama è stata sviluppata, a partire dal richiamo, esplicitato nella copertina, alle opere di De Chirico, come si può vedere nelle immagini da me riportate. De Chirico tra l'altro aveva ripreso le sue stranianti architetture desertiche dalle impressioni ricavate dalla Torino ermetica (lo impressionava che nel 1888 della sua nascita la città avesse ospitato la follia di Nietzche). L'immagine ripresa, per la precisione, è "Malinconia di una strada" (1914): la citazione è perfetta nelle masse cromatiche e nelle forme ad arcata dei due palazzi, quello in luce e quello in ombra; le silouhette dei due ragazzi richiamano quella identica della fanciulla e quella, disposta diversamente, della statua armata di lancia che traspare sullo sfondo. L'unico elemento incongruo, volutamente straniante, è la croce ad otto bracci del meccanismo del tempio, che svolge non a caso un ruolo centrale nel gioco.




Significativamente, la citazione visuale di De Chirico non ha una rispondenza didascalica negli scenari del gioco, pur evocando una comune sensazione di spaesamento tra rovine surrealmente classiche. Una volontà di accomunare il videogame in questione a un romanzo, che può citare in copertina un grande artista senza che l'opera stessa ne sia una pedissequa trasposizione. Non a caso la copertina dell'originale, realizzata dal team giapponese, è stata modificata nell'edizione statunitense con una banale soluzione grafica: l'operazione non è stata capita e accettata oltreoceano, mentre la scena europea l'ha accolta in modo sostanzialmente favorevole.


La scelta di De Chirico appare ancora più interessante, però, se si coglie che non è neppure stata usata in modo casuale, magari per una nobilitazione generica di tipo midcult; ma come un esplicito rimando alla fondazione dell'inquietudine dei quadri dechirichiani nella reinterpretazione del mondo classico cui l'autore, di origini greche, si sentiva profondamente connesso. Una rilettura, tra l'altro, condizionata dallo straniamento della modernità tecnologica: l'essere figlio di un ingegnere ferroviario era l'altro polo del suo contradditorio retroterra esistenziale, cui De Chirico dava un peso quasi divinatorio.

Non a caso, del resto, le illustrazioni interne del manuale di gioco rimandano invece ad un altro autore italiano, Piranesi, il quale per primo, nel Settecento neoclassico, aveva interpretato il tema delle rovine in un senso sottilmente angoscioso con le sue terribili Carceri d'Invenzione, grandi spazi di prigionia tetramente, enigmaticamente deserti.

Proprio il riferimento di Piranesi, tra l'altro, è estremamente pertinente nelle scelte grafiche del gioco, che richiamano i suoi ciclopici spazi di detenzione; e, per i meccanismi della ricezione, Piranesi era anche la fonte non consapevole di tutto un genere di esplorazione claustrofobica cominciato con Doom (1993), tramite un più generico immaginario neogotico della cultura anglosassone che fondava le sue origini sul fascino per l'Italia delle rovine.

Un riferimento che Ico ha disvelato, per la prima volta, ponendo un tassello fondamentale per la maturazione della consapevolezza culturale dei videogame. Non è sicuramente casuale, a questo punto, neanche l'elemento centrale di citazione del mito: ovvero che Ico sia, evidentemente, una riedizione del mito del Minotauro: come lui difforme mezzo uomo - mezzo toro, come lui imprigionato in un labirinto; oggetto, non casualmente, di una profonda reinterpretazione da parte dell'arte contemporanea.

La trattazione patetica che il videogioco dà del mito (il mostro non è il malvagio ma l'eroe: prospettiva oltretutto ovvia ad esempio in letteratura, cinema e fumetto, ma abbastanza innovativa in ambito videoludico) rimanda all'Asterione riscritto da Borges: e se nello scrittore il finale è quello tragico del mito, qui la giovane eletta, incarnazione come Arianna di una oscura grande madre, collabora a far fuggire il mostro invece che l'eroe suo uccisore.

La riscrittura borgesiana e quella videoludica, tra l'altro, non sono solo giocosa dissacrazione del mito: ma riscrittura, in fondo, del mito più profondo e più vero, quello del Dio Toro matriarcale non ancora soppiantato dalle moderne divinità antropomorfe del patriarcato.

Il labirinto del minotauro, antichissimo gioco istoriato in tutta l'area mediterranea come simbolo della potenza cretese, visualizzazione grafica della spettacolare teatralità del gioco della tauromachia, viene qui rivivificato nel videogame che ne raccoglie la remota eredità culturale, riscoprendo l'incredibile potenza di Icona (Ico, appunto) ludica dell'antico Dio Toro matriarcale.