Giolitti nel "Giardino".












Rileggevo l'altro giorno, a scuola, "Il giardino dei Finzi-Contini" (1962) di Giorgio Bassani.



Si tratta di un romanzo con cui ho un curioso rapporto.
Personalmente, infatti, mi sono sempre identificato con la tradizione del fantastico e del post-moderno.

Formalmente Bassani venne invece, proprio per questo romanzo, identificato dagli avanguardisti del Gruppo 63 (tra cui Umberto Eco) come una delle "Liale del '63", assieme a Cassola (La Ragazza di Bube) e Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), giudizio poi attenuato nel tempo.

Ovvero, l'esponente di un tardo, estenuato e ormai inutile neo-realismo,
perennemente ancorato ai soliti temi veristici (Tomasi), del fascismo (Bassani) e della Resistenza (Cassola).


E invece io ho trovato Bassani estremamente post-moderno.



Il primo contatto con l'opera l'ho avuto alle medie, tramite il più celebre brano antologizzato, quello del primo incontro dell'anonimo protagonista con Micol dodicenne.



Ricordo anche che mi aveva colpito, fin da allora, tanto da spingermi a prendere il libro in biblioteca nell'attesa di una sorta di libro di avventure per ragazzi ambientato nell'era fascista; e di averlo abbandonato, deluso, dopo la scoperta del brusco salto al 1938, con i protagonisti studenti universitari prossimi alla laurea.



L'ho quindi riletto in età universitaria, apprezzandone la resa tutto sommato ancora moderna di un certo clima universitario, di allegro cazzeggio sull'orlo del baratro, ovviamente un baratro ben diverso:

il mondo adulto della triste età delle crisi per noi, l'orrore della shoah per loro.

Un baratro ben peggiore (e più immediato) il loro, ovviamente.

Ma Bassani tiene il baratro così in penombra che nella prospettiva vien voglia di confondersi.



La rilettura negli ultimi anni, da insegnante, mi ha portato però a scoprirne la dimensione "postmoderna", stratificata. Innanzitutto, molti hanno sottolineato una dimensione fiabesca dell'opera, con quel "favola" ripetuto più volte all'inizio, la bionda principessa tenuta prigioniera da un re buono, il padre, che l'ama, ma che la vuole tutelare in modo ossessivo dal mondo esterno, la scala tesa al principe perché egli la raggiungesse salendo sull'alta torre.



Questa dimensione fiabesca c'è, indubbiamente, ma si sovrappone a mio avviso una dimensione dantesca, ben più significativa: l'incontro a 12 e poi 24 anni (invece del 9, sacro per Dante, il 12 di valenza ebraica), la precoce scomparsa della donna angelicata, e la vita dell'autore nel di lei ricordo... a confermare tale ipotesi, l'elemento del nomignolo Celestino per il protagonista dagli occhi azzurri, "colui che per viltade fece il gran rifiuto", a preconizzarne gli eccessivi tentennamenti che gli precluderanno la donna amata (termine riproposto dalla garbata prostituta bionda in cui egli, alla fine, si illude di ritrovare Micol prima di divenire definitivamente consapevole del distacco).



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Curiosi, per un monregalese come me, due riferimenti ad elementi della cultura locale. La sinagoga privata dei Finzi Contini, che segna il loro definitivo distacco dal resto della comunità ebraica nel 1932, dopo "l'infornata del decennale" con cui molti italiani ed ebrei entrano nel partito fascista, viene costituita grazie ad arredi presi dalla sinagoga di Cherasco nella finzione del romanzo.



Interessante anche la citazione di Giovanni Giolitti, nato nel 1842 a Mondovì. In politica dal 1862 prima come tecnico e poi come politico (pur non avendo partecipato al Risorgimento per diffidenza verso lo spirito bellico) dal 1882, primo ministro con sorti alterne dal 1892, Giolitti diede il nome all'era che precedette l'avvento del regime fascista ed è la nostra massima gloria locale.




















































Il romanzo di Bassani, come è noto, è incentrato sulla borghesia ebraica di Ferrara di fronte all'avvento delle leggi razziali e del nazismo: essa si chiude in sé, in attesa che la bufera passi, e simbolo di questa chiusura è proprio la famiglia Finzi-Contini, che mette a disposizione dei giovani ebrei il proprio campo da tennis dopo che con le leggi razziali i giovani ebrei sono stati radiati dai circoli ufficiali. 





Qui il narratore parafrasa le parole del comunista Malnate, che condanna Giolitti per l'errata valutazione del pericolo costituito da Mussolini stesso. In effetti il giudizio di Malnate (che ovviamente non è ipso facto quello dell'autore) è piuttosto ingeneroso, in quanto se da un lato Giolitti tollerò le violenze squadriste nel Biennio Rosso come contraltare ai moti comunisti, dall'altra tentò di limitare il potere dei Savoia di dichiarare guerra in modo autonomo (com'era avvenuto in Libia e nella Grande Guerra), venendo per ciò estromesso su pressione degli stessi in favore dell'inetto Facta.





Votò in effetti il governo Mussolini, accusando i socialisti di aver reso impossibile, col loro rifiuto di un dialogo, un altro governo; ma nel 1924 propose una sua lista politica in Piemonte, "Democrazia"; distanziandosi dal grosso dei Liberali che entrarono invece nel listone unico liberal-fascista; qui venne eletto assieme al cuneese Marcello Soleri, che come ministro della guerra di Facta aveva preparato nel 1922 lo stato d'assedio contro la Marcia su Roma che il re rifiutò di firmare. Criticò la scelta della Secessione dell'Aventino, ma solo perché riteneva che l'opposizione si dovesse portare in aula, e non per sudditanza al regime. Eletto nel 1925 presidente della Provincia di Cuneo, decadde dall'incarico per il rifiuto di giurare fedeltà al partito col 1926, mentre si instauravano le Leggi Fascistissime che rendevano vano anche il suo seggio in parlamento; nel 1928, l'anno della morte, fece un ultimo intervento parlamentare contro i Ludi Cartacei parlamentari che nel 1929 avrebbero sostituito le elezioni ponendo fine ad ogni simulazione di democrazia (l'anno, non a caso, in cui iniziano le vicende dei Finzi-Contini). Quindi lasciare intendere che Giolitti si fosse ritirato dalla vita politica nel 1922 non è tanto ingeneroso quanto inesatto.



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Oltre queste due annotazioni localistiche, da cultore del fantastico mi hanno colpito i riferimenti al Nautilus di Verne e al Maelstrom di Poe. Chiaramente, questi due riferimenti eccessivi per la semplice storia d'amore servono a riverberare l'orrore non detto della guerra incombente; e tuttavia è interessante il recupero di un canone non certo tradizionale per due metafore decisive nel romanzo, tanto più che l'io narrante è descritto come persona di ipertrofica cultura umanistica.



Ipertrofica, in effetti: e dunque inadatta a dire, ormai, gli orrori di quei tempi o in generale dell'umano. Così il maelstrom in cui vanno cadendo è il rovinarsi della relazione tra lui e Micol, il gorgo infernale di cui parla Poe, ma anche l'incombere sempre più stringente e ignorato della Shoah: e la casa Finzi-Contini è il Nautilus, l'apparente rifugio nella tempesta, nel naufragio della storia d'amore e dell'orrore nazifascista, fallace in entrambi i casi.



Nel Maelstrom finisce anche infatti il Nautilus di Nemo nel romanzo di Verne, e qui sparisce letterariamente agli occhi del narratore, vinto dal portento della natura che apparentemente trionfa sul prodigio della tecnica. Del resto, l'hortus conclusus di Micol, il suo castello della Rosa dove invita ambiguamente l'io narrante ad entrare, è l'antico e nobile "Barchetto del Duca", una delle residenze estive degli Estensi.



La metafora marittima è quindi giustificata a partire da qui. Metafora che ricalca quella dantesca, fra l'altro, nel ben noto parallelo tra il suo viaggio e quello odusiaco: e se la metafora del viaggio fantastico per mare è in fondo la più comune dell'immaginario occidentale, qui il parallelo è rinforzato dagli elementi danteschi sovra detti, e dall'opposizione tra il paradiso dell'hortus conclusus e l'orrore cosmico infernale del montante nazismo che lo circonda.





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La retorica della reticenza che avvolge l'opera lascia poi spazio a impressioni di una ambiguità ben più potente di quella che Bassani ci fa percepire in superficie.



La malattia del personaggio di Alberto, il fratello di Micol, è evidente, in senso fisico ma anche morale; sappiamo inoltre con relativa certezza di una sua astenia nei confronti del genere femminile, rifiutando, negli anni milanesi, una ballerina della Scala che si era invaghita di lui, nello stupore del rozzo Malnate.



La sua passione morbosa per l'amico ha fatto supporre ad alcuni una latente omosessualità, ma forse ancora ad altro si allude, data la gelosia manifesta di Micol nei suoi confronti e la loro lunga reclusione nella tombale casa di famiglia (i presagi mortiferi non si contano, per cui non tento nemmeno di categorizzarli).



Un elemento che potrebbe spiegare il motivo per cui il padre del protagonista è rinfrancato del fallimento della sua storia amorosa con Micol, ma non rivela il vero motivo del suo sollievo con giri di parole contorti e generici.



Data la maggior vicinanza dell'opera, l'interesse per questo elemento scabroso è stato minore che per i misteri sparsi nella sua opera - volutamente, senza dubbio - da Dante: dal cannibalismo di "poscia, più che il dolor, poté il digiuno", ad appunto "colui che per viltade fece il gran rifiuto".



Irraggiungibile e inquietante, il fantasma di Micol Finzi Contini continua ad aleggiare sulla narrativa nazionale.





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(La foto di copertina del post è Dominique Sanda nei panni di Micol nel film vincitore di Oscar di Vittorio de Sica del 1970, che Bassani sconfessò.)