Xeno


Silvano Gregoli, Xeno (2011)

Presentazione a Mondovì Breo, oggi, del romanzo di fantascienza del monregalese Silvano Gregoli, fisico di formazione e di professione (per chi non l'avesse letto, il solito avviso del rischio di spoiler).

Il romanzo a un primo livello può essere ascritto alla fantascienza catastrofica, un genere reso tristemente noto dal cinema hollywoodiano contemporaneo, ma che vanta anche nobilissime radici a partire da "The Last Man" (1826) di Mary Shelley, l'autrice di quel Frankenstein (1816) che sta alle origini della scientifiction occidentale. Nello specifico, Xeno si può avvicinare al catastrofismo "alla Crichton", basato su una estrapolazione il più possibile credibile e rigorosa. La formazione scientifica dell'autore si fa sentire e costruisce un meccanismo distruttivo impeccabile e, cosa che nella SF ha oggettivamente un peso essenziale, innovativo non solo nell'invenzione della parte scientifica, ma anche nel punto di vista proposto.


A differenza di Crichton e imitatori, difatti, Gregoli non fa scaturire la fine del mondo dal classico esperimento andato a male condotto da una malvagia multinazionale, moderna incarnazione del Mad Doktor che tanto dispiaceva ad Asimov. I due scienziati protagonisti dell'opera sono due personaggi positivi, ma lontani anche dal superuomo tecnocratico che sarebbe piaciuto a Gernsback: umani, troppo umani, non riescono a fermare una catastrofe scaturita con implacabile precisione da un processo naturale. La sottile polemica - che non risparmia il mondo accademico - è semmai rivolta contro gli ecologisti (bersaglio anche di Crichton, tra l'altro, in "Stato di paura").

Tutto questo tuttavia non basta, perché il romanzo, a differenza del puro razionalismo scientifico che sembrerebbe qui invocato, non fa mancare un certo sottofondo esoterico che accompagna l'inquieta evoluzione verso la catastrofe. Una antica profezia di morte da cui sembra segnata soprattutto la protagonista femminile, sospesa tra il proprio lavoro scientifico e le proprie radici celtiche, ancestrali, che la condannano fin dal nome ad essere legata ad un oscuro destino.

Quando la catastrofe cala sull'umanità, infine, l'opera vira decisamente in senso simbolico. L'umanità attende assegnata alla sua stessa eutanasia; gli stessi scienziati protagonisti ritornano verso il di lui paese natale, dove credono di morire e dove trovano, invece, un'inattesa opportunità di salvezza nella gretta e chiusa comunità montana che comunque li accoglie e che, pare, della sua stolida durezza si fa un efficace schermo per non impazzire di fronte al collasso del mondo. In fondo, per un universo chiuso come la piccolissima comunità montana che sopravvive - non del tutto isolata, a quanto pare alla fine - alla catastrofe, il mondo coincide col villaggio; la fine del villaggio globale è un evento oscuro ma non così devastante. Solo i due scienziati restano, all'apparenza, a ricostruire dalle macerie quello che resta della civiltà umana, aggrappati alla speranza di altri come loro.



Una conclusione cupa, ma non priva di un tenace ottimismo nella ragione umana, anche contro ogni apparente ragione: il romanzo si chiude dove potrebbe iniziare "Un cantico per Leibowitz" (1959) di Walter Miller; anche se in questo caso la catastrofe era, ovviamente, nucleare. "Xeno" è, tra l'altro, anche parte del titolo di un romanzo fantascientifico del 1979 di D. F. Jones, curiosamente vicino per certi versi al romanzo di Gregoli, a quanto ne scrivono online qui. Gli archetipi junghiani, si vede, sono duri a morire.