The Green Fairy


riprendo coi post dedicati alla mostra della Fata Verde, per cui ho elaborato i testi di presentazione degli artisti, con qualche precisazione che mi è venuta nel frattempo. Concluderò il lavoro domani pubblicando la piccola ricerca che ho elaborato sulla tradizione dell'Assenzio in arte e letteratura. 

 (Il link del PDF del catalogo sul sito del comune di Mondovì, salvo cancellazioni, è qui)

Lorenzo Barberis


Gianni Maunero “Mao”

Foto di Lorenzo Barberis, "Gli automi di Mao" (2011)

L’artista bovesano Gianni Maunero, in arte Mao, rappresenta la voce della Scultura in questa mostra dedicata alla Fata Verde, il volto orfico e sinestetico della creatività. Ospite per la prima volta della città monregalese, le sue sculture sono presenti, oltre che in quella a lui dedicata, anche nelle altre tre sale dell'esposizione, venendo a fare da elemento unificante di questa sinestetica esposizione. La sua produzione si caratterizza per un’arte plastica fondata su materiali di recupero e caratterizzata da un'impronta personale portata dal percorso di autodidatta, irriducibile a una precisa corrente scultorea, nonostante alcune reminiscenze dei mobili di Calder. Una ricerca cinquantennale, caratterizzata da quello che lo scultore definisce  come un intenzionale Iperproduttivismo: ormai quasi diecimila opere realizzate, che gli hanno valso anche una menzione nel Guinness dei Primati del 2007 per aver realizzato quattrocentocinquantuno sculture in sole cento ore. Le sue creazioni sono assemblaggi di vari scarti di produzione quali metalli, plastiche, vetri, calchi di cemento, involucri, bottiglie, flaconi e contenitori usati; una scultura che è stata definita come Arte Fattuale dallo scrittore e critico Antonio Sartoris, per la sua capacità di “porsi dinanzi ad un fatto, un’opera, un oggetto che, per tanta gente, sono semplicemente delle cose con una propria personale visione che si colloca a fianco della cosa stessa o la sovrasta”. Una ricerca, dunque, che approfondisce il centrale studio novecentesco del Ready Made e dell’Object Trouvé, dal cavatappi di Duchamp in avanti; ma che rimanda in fondo alla più ancestrale tradizione scultorea delle pietre-stele vagamente dirozzate in età preistorica, fiorente anche dalle nostre parti, come a Briaglia. In particolare, Maunero evoca nella sua personale sperimentazione potenti figure antropomorfe e zoomorfe, che nei preminenti materiali metallici ricordano talvolta dei retrofuturistici robot.

Gianni Bava


Foto di Lorenzo Barberis, "L'Urlo di Bava" (2011)

Gianni Bava è nato a Mondovì il 25 novembre 1955. Il suo percorso artistico si avvia negli anni ’70 in una stretta connessione di segni visuali e parole, astrazioni e liriche combinate con una sintesi grafica sapiente e visionaria al tempo stesso, con un gusto che ci pare avvicinabile talvolta al futurismo punk di certo fumetto underground – più dalle parti di Majakovski che di Marinetti, probabilmente. Le tecniche spaziano dall’acquerello alla china, dal pastello al collage, dalla fotocopia all’uso di acrilico e tempere acriliche su carte e masonite, tecnica che ultimamente risulta prevalente. Una caratteristica, questa commistione di tecniche, stili e forme espressive, che ha accompagnato l’autore anche nel corso della sua successiva produzione, dalle prime discrete uscite espositive dei primi anni ’80 alla realizzazione, assieme ad altri, di “Weltanschauung” negli anni ’90, rivista cui presta le sue raffinate e dirompenti invenzioni grafiche. Presso la Biblioteca Civica di Mondovì si possono ammirare alcune sue interessanti interpretazioni di “The Waste Land” di Eliot e un dipinto astratto-pop vagamente alla Keith Haring, residuo di una mostra dei primi anni 2000 nell’allora open space espositivo. Nella presente esposizione, dedicata alla Fata Verde dell'assenzio ottocentesco, Bava apre la prima sala della mostra  con una trascrizione grafica dell'Urlo di Ginsberg (1955), indubbiamente connesso alla tematica della creatività lisergica evocata dall'assenzio.


Alessandro Dattola


Foto di Lorenzo Barberis, "Il Gatto di Dattola" (2011)

Alessandro Dattola nasce a Genova il 9 giugno 1969. Dopo il liceo artistico, frequenta un corso triennale di design di moda, sperimenta il teatro, la pittura e la grafica, per approdare infine alla poesia, ma mantenendo all’interno di questa sua produzione poetica la visualità delle altre arti. Nel 2009 pubblica la sua prima raccolta poetica dal titolo “La rivoluzione delle stelle pensanti” (Aletti, Roma). Alcune sue poesie e racconti sono stati inseriti all’interno di antologie, in particolare il racconto “I sette sigilli dell’oblio” incluso nel volume “L’eroina è merda che sa di vaniglia” (Cicorivolta, Villafranca Lunigiana) e “Omaggio a Vasilij Kandinskij” inserito nell’antologia “Poesia Onirica” (Estro-Verso, Roma). Attualmente vive a Pianvignale, in provincia di Cuneo, insieme alla sua amata gatta Sibilla. In questa esposizione dedicata alla Fata Verde come assenzio della creatività più onirica, Dattola è presente con le sue poesie, “parole come quadri”, sinestetiche liriche non solo da leggere ma anche da guardare. Per usare le sue parole, “un immergersi ed emergere da una fantasmagorica visione trasognante. Parole accalcate contro il mutismo che dilaga, insieme alla perdita di coscienza.” Le sue liriche, sospinte attraverso gli spazi interiori del lettore, tentano dunque di portare a nuove armonie. In questa mostra sono presenti dodici tavole dove i componimenti poetici sono stati elaborati dall’autore interpretandone il senso grazie a raffigurazioni. Utilizzando materiale di recupero, l’autore ha realizzato scenari evocativi che non seguono necessariamente i testi: ne manifestano il significato più profondo. Dalla sala centrale della mostra, con l'uso di materiali metallici prevalenti Dattola pare quasi collegare le due sale contigue dedicate ai ready made di Mao e alle interpretazioni grafiche di Bava.


Bruno Capellino


Foto di Lorenzo Barberis, "Capellino: Fuochi Alchemici" (2011)

La ricerca di Bruno Capellino si qualifica come un excursus attento e raffinato nei percorsi dell’arte fotografica. L’autore monregalese, difatti, è partito inizialmente dalla realtà del paesaggio e delle architetture di Mondovì, secondo una scelta apparentemente “naturalistica” spesso semplicisticamente associata al medium fotografico. Già qui però l’autore faceva emergere nelle sue inquiete vedute urbane in bianco e nero lo spirito gotico che aleggia nel centro storico medioevale di Mondovì Piazza, ma anche la surreale sospensione insita nei bafometti della metafisica Stazione monregalese; opere presentate sul finire dei ’90, nelle prime mostre presso l’associazione Artes. In seguito, l’inquietudine della ricerca ha spinto Capellino ad una graduale astrazione dell’oggetto fotografico tramite numerosi studi quasi alchemici sulla materia della roccia e del cristallo, fino a giungere ad una fotografia paradossalmente astratta che coglie il proprio oggetto, talora deformandolo, in un insieme di linee, punti, curve, superfici diversamente intersecanti, da cui non è più possibile decifrare l’apparenza reale: un risultato emerso nelle esposizioni degli AgghArtisti monregalesi dei primi anni 2000. Un’immagine fluttuante, onirica, orfica, vicina per certi versi più all’informale che all’astratto, un momento psichedelico e irreale fissato per un istante sulla carta fotografica, che in questa esposizione dedicata alla creatività onirica della Fata Verde viene a rappresentare il polo della Fotografia nelle sue foto dedicate alle variazioni sul Rosso, fuoco alchemico che dall'ultima sala rimanda, in una chiusura circolare, alla spada di fiamma dell'arcangelo Michele che domina la prima sala in un bel dipinto storico del 1722.