Dylan Dog 335 - Il Calvario







LORENZO BARBERIS.





Spoiler alert as usual.





Il numero 335 di Dylan Dog vede il ritorno alla sceneggiatura di Giovanni Gualdoni, responsabile della breve gestione 2010-2013. Gualdoni (classe 1974, importanti esperienze in Francia alle spalle e "Wondercity" per la Walt Disney) era stato contattato nel 2006 da Marcheselli per affiancarlo e sostituirlo come curatore di Dylan Dog (mentre Marcheselli diventava, come è tuttora oggi, direttore generale della Bonelli (un ruolo probabilmente ancor più importante dopo la morte di Sergio Bonelli, in ottobre 2011).





La sua gestione è stata considerata (forse ingiustamente) l'apice della "decadenza Bonelliana", avviatasi dopo l'allontanamento di Tiziano Sclavi dalla testata da lui fondata. Marcheselli infatti era almeno lo storico "braccio destro" di Sclavi, autore, per dirne una, di "Johnny Freak", lo storico numero 81 ritenuto da molti uno dei principali albi-simbolo del personaggio.





Onestamente, avendo abbandonato il personaggio per un lungo periodo (ben prima del 2010) non sono in grado di dare un giudizio assoluto sul ruolo di Gualdoni sulla "decadenza" (oggettivamente presente, ma fisiologica su una serie così longeva) intercorsa. Gualdoni stesso ha ammesso tuttavia, in interviste, di essere rimasto forse troppo fedele agli ordini di scuderia, non riuscendo quindi a impartire un segno innovativo. Certo, anch'egli nelle interviste rimpiange convenzionalmente le antiche libertà sclaviane, ma Recchioni è effettivamente riuscito a far tornare lo splatter, abbandonando invece il "buonismo sclaviano" cui Gualdoni si legava. E poi, sotto la retorica dell'eterno "ritorno a Sclavi", Recchioni ha messo una personale impronta nelle storie fin qui revisionate, che forse è assente, non immediatamente percepibile almeno, in quelle di Gualdoni.





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Il presente albo invece non è affatto male, a mio avviso, e non solo per gli eccelsi disegni di Paolo Martinello, copertinista di Valter Buio e disegnatore del secondo capitolo delle Cronache dal Pianeta dei Morti, l'eccellente ciclo distopico di Bilotta (iniziato nel 2008 sul secondo Color Fest, e conclusosi di recente nell'ultimo Gigante) che è probabilmente il meglio dell'ultima fase di Dylan Dog (non a caso si promette l'avvio di una sottocontinuity apposita con la Fase Due).





La bella copertina di Stano ricorda "La strada" (2006) di Cormac McCarthy, con il padre e il figlio "On the road" e la Morte a dominare la scena. L'immagine è anche abbastanza fedele al contenuto dell'albo, ma solo sotto un profilo simbolico. Come affermato anche dal curatore Recchioni, con essa si abbandona l'uso dei retini Pop, criticati in rete (ma al di là della ricezione della critica, potrebbe essere una semplice necessità di variatio, per non stancare ripetendo troppe volte una scelta spiazzante).





Niente viaggi post-apocalittici: semplicemente, una What If story, in un certo senso, dove vediamo Dylan alle prese con un figlio avuto da sempre. Ovviamente, come nella sparizione biennale di Groucho due numeri fa, capiamo subito che si tratta di una sorta d'illusione.





Tuttavia è divertente vedere Dylan Dog padre improbabile, quasi da coppia gay con "zio Groucho" a fare da madre putativa al ragazzo (e guardati dunque, i due, malissimo da una maestra bigotta).





Anche l'incipit non è male, col bambino che compare a interrompere il coito di Dylan e dell'ennesima cliente del mese, assistendo così alla classica scena primaria freudiana (p.7).





Il massacro gratuito della povera Amelia serve a dare un po' di splatter a un albo povero sotto questo profilo, almeno per gli standard del Rinascimento Dylaniato.










La scuola come orrore è un grande classico dylaniato (forse più un tempo, quando lo zoccolo duro dei suoi lettori erano studenti delle superiori, nei '90), che qui viene reso anche tramite la citazione di Cattelan a pagina 21 (ma l'aveva già fatta Cristiana Astori nella sua storia sul Color Fest 11).















L'infermieria della scuola dove inizia il Calvario del titolo, ovvero la malattia di Johnny e di suo padre Dylan, presenta immagini dei Teletubbies e lo scuoiato di Vesalio (p.23), rafforzato nella sua inquietudine dall'immagine infantile. Data la vicinanza con la citazione di Cattelan, a questo punto forse non è Vesalio, ma la sua rilettura da parte di Carnowksy.









Usciti da scuola, l'orrore del WowBurger investe il vegetariano Dylan Dog (il Wow Burger esiste davvero, tra l'altro). Intanto Susan inizia a impazzire, sedata a iniezioni dal marito medico Carl mentre cerca un figlio in teoria inesistente.



E dopo il trionfo dell'orrore della carne si apre l'orrore vero della discesa negli inferi della malattia del figlio, con una struttura che ricorda il progressivo declino dei Sette Piani di Buzzati ambientato nel General Hospital di Hicks, il Medico Malvagio del ciclo di Dylan Dog (Dylan ne incontra il mostruoso figlio lovecraftiano, anche se è solo un suo incubo).



Tutto il resto scorre inquietante ma prevedibile fino al raffronto finale con la vera madre di Johnny, che ha ucciso il padre in modo splatteroso, per punirlo del patto scellerato fatto (crede lei) con la Morte, e per sollevare la media horrorifica dell'albo.



Ancora alcuni elementi gustosi sul finale: Groucho che racconta una barzelletta sconcia al fanciullo (ci riportano solo il finale: "noi non abbiamo mucche, abbiamo tori!"), a p.78, e Dylan che si reca nella cattedrale, si mette a pregare, noi ci illudiamo sia davanti al crocifisso, e invece sta pregando la morte.



La scena è piuttosto forte per gli standard bonelliani, perché implica (giocandolo solo su un piano visuale, ma è un plus) l'indifferenza di Dylan alla religione tradizionale, ritenuta irrilevante. L'unica degna di culto è la Morte, che però non può intervenire, perché in questo caso si tratta di un incanto fatto dalla sua gemella, la Vita.



Dato il titolo religioso (Il Calvario) il tutto acquisisce ancor più forza, specie dopo la criptica battuta oscena raccontata al ragazzino morente che introduce quell'orrore di Groucho tanto amato da Recchioni.



E anche questa storia, come la precedente, o come "La morte non basta" (331) è una riflessione sugli orrori ospedalieri, tema buzzatiano molto amato da Sclavi, ma che anche Recchioni ama esplorare (vedi il capolavoro Mater Morbi). Onnipresente, a livello ormai di personaggio fisso, è la Morte nelle ultime storie, stando a Recchioni per accumulo e non per la sua predilezione per le Entità, tipico del suo fumetto John Doe.



Comunque, ancora un buon albo, che prosegue la marcia verso la Fase 2.