Tutto quel blu







LORENZO BARBERIS



Spoiler alert, as usual.






"- Una domanda. Conosci il nome della vittima, quella ammazzata durante il film?




  - Uhm... un certo Barberis."






(p. 168, "Tutto quel blu").





"Tutto quel blu" chiude, almeno per ora, la trilogia che Cristiana Astori ha voluto dedicare alla sua eroina Susanna Marino e al tema dei "film maledetti", Necronomicon visuali, pellicole perdute cui si attribuiscono leggende inquietanti e mortifere. La scrittrice fossanese, mia conterranea e coetanea - l'avevo anche conosciuta ai tempi del Liceo - conferma la sua capacità di aver creato un sottogenere convincente del "giallo ermetico", il mio ambito letterario preferito.



Il primo romanzo, nel 2012, "Tutto quel nero" (qui la mia recensione), si occupava della più celebre di tali pellicole misteriose, "Un dia en Lisboa", che venne tra l'altro ritrovata fortunosamente proprio in contemporanea con la riscoperta letteraria da parte dell'Astori.



Il secondo lavoro, "Tutto quel rosso" (2013) si dedicava a Profondo Rosso di Dario Argento e al mistero legato soprattutto ai suoi setting torinesi (mi sono purtroppo perso questo capitolo della serie, ma conto di recuperarne presto almeno la lettura).



Questa volta "Tutto quel blu" chiude questo 2014 su "L'Autuomo" (1984), pellicola mai proiettata di Marco Masi di cui la Astori immagina una sola, perduta proiezione torinese divenuta nel tempo "maledetta". Non però una pellicola, come le altre volte, ma una videocassetta perduta, realizzata in forma pirata a una singola proiezione dell'opera (in verità mai avvenuta), che campeggia anche sulla cover sobria ed essenziale. Già questo elemento mette in evidenza come l'opera sarà una riflessione sugli '80, l'età dell'oro perduta della sua (e mia) generazione.



Tutta la narrazione è intessuta di una profondissima cinefilia ed amore per il genere sci-fi e horror, e ricostruire quindi una mappatura delle citazioni, come mi piace solitamente fare su un'opera che ho apprezzato, avrebbe poco senso, diventando quasi una riscrittura integrale.






Il tema delle vessazioni scolastiche appariva
già nel Dylan dell'Astori.



Un elemento presente fin dal primo romanzo, il citazionismo, ma che qui diventa più accentuato, quasi ricordando per certi versi la scrittura dei primi Dylan Dog sclaviani, dove quasi ogni battuta diveniva un rimando a un film, a un romanzo, a un autore, in un tessuto citazionistico densissimo e quasi inestricabile (la Astori ha anche scritto un bel corto di Dylan Dog sul Color Fest 11 (2013), dove aveva già mostrato appunto la sua capacità di coniugare personalmente il gioco delle citazioni dylaniato).



Come nelle migliori opere di Sclavi & Co, le citazioni non sono qui fini a sé stesse ma costituiscono un pattern in grado di arricchire l'opera di un secondo livello di lettura.








La cover non promette granché bene, devo dire.



Innanzitutto, l'autrice non manca di stabilire un parallelo tra l'Autuomo e il coevo Terminator (1984) di Cameron, il capostipite del cinema sci-fi/horror anni '80. Anch'esso, all'epoca, un B-Movie per budget e marketing iniziale, portato però al successo dalla bravura del regista e da uno Schwarzenegger perfettamente in parte, tagliata (con l'accetta...) apposta per lui.



Terminator pare ispirare il killer che agisce nella storia, eliminando una serie di omonimi legati ad una oscura vicenda del passato e, ovviamente, alla videocassetta maledetta. Ritorna il tema del "passato che non passa", declinato tramite la fantascienza e molto più efficace che in tanto scialbo realismo sentimentale. Gli anni '80 con la loro corruzione ritornano dal passato a distruggere il nostro presente.



L'immagine sembra rafforzata dal riferimento a un altro dei classici degli '80, "Ritorno al futuro" (1985), film dell'anno seguente al capolavoro di Cameron, l'anno in cui sono ambientati i primi eventi delittuosi che ritornano nel prosieguo della storia, ai giorni nostri.








Un altro Marty loser, soggiogato dal capo giapponese
(notare la doppia cravatta servilmente ispirata al sol levante).




A "Ritorno al futuro" è ispirato infatti il personaggio di Marty, loser che sta per chiudere la sua videoteca, un tempo mecca della nerd culture torinese, a causa della crisi della videocassetta. Una citazione, appare, più dal secondo film (1989) che dal primo, quando il Marty adolescente scopre il suo alter ego del 2015 (cioè dei nostri giorni: il libro esce a dicembre 2014...) ed è sconvolto di vederne la decadenza, in un futuro "da fantascienza" che non è quello sognato.



Non mancano altre citazioni, tra cui soprattutto al tema robotico e fantascientifico in genere (Supercar, ad esempio); ma l'aspetto più interessante, forse, è l'inserimento nel gioco delle citazioni anche di elementi noti della cronaca, ovviamente ricostruiti e dissimulati, che vanno a formare una serie di rimandi a fatti noti in cui, dato il contesto, pare di intravvedere controluce una serie di messaggi più o meno criptati, e pare di risentire Cardini che accusava Eco, ai tempi del "Pendolo di Foucault", di scherzare col fuoco (infernale).



Abbastanza riconoscibile è infatti Marta Belli, la pornostar che si redime e diviene l'alfiere del perbenismo più bacchettone, così come il DJ Ash perseguitato dai figli illegittimi che pretendono un riconoscimento che lui non ha alcuna voglia di dare, contraddicendo la propria immagine apparentemente positiva.



Ma, appunto, sono enigmi che si preferisce non sciogliere, in quanto di facile soluzione e forse lasciati volontariamente ambigui. Colpisce infatti che - tralasciando i debiti omaggi alla scena italiana del fantastico cinemico e non - le citazioni siano sempre estremamente caustiche e pessimistiche, mettendo con più forza in luce i piccoli e grandi orrori dell'Italia - e della Torino - tra anni '80 ed oggi.



Palazzo Nuovo è anch'essa perfettamente credibile nel mediocre professor Villani, relatore di cinema totalmente indifferente al fantastico come "genere minore", fosse pure Dario Argento; la caratterizzazione delle forze dell'ordine colpisce per la coraggiosa radicalità pessimistica, ben oltre gli stereotipi del noir.








(la locandina sembra di Moebius. Prestigio.)



La singola "proiezione dannata" dell'Autuomo ricorda poi quella - esplicitamente citata - de "La Chevre" (1981) al Cinema Statuto, presso l'omonima piazza nera di Torino. Questo film francese sulla sfortuna cronica e comica dei due protagonisti venne proiettato nel 1983, e un incendio in sala portò alla morte di 64 persone, 32 uomini e 32 donne, di cui una bambina e un bambino. Per la cultura esoterica torinese il riferimento alla scacchiera degli scacchi (64 caselle, 32 bianche e 32 nere) non è casuale, e rimanda alla natura di scacchiera magica di Torino, alternanza di forze bianche e nere in un quadrilatero romano (alcuni, specie in ambiti religioso-conservatori, lo collegano anche al "carnevale esoterico" avvenuto poco prima). Ad ogni modo fu il disastro che portò alle nuove norme di sicurezza, e anche temporalmente si avvicina molto al 1984 del romanzo.



La proiezione maledetta era stata già citata dalla Astori nel secondo romanzo, collegandola questa volta all'immaginario di Dario Argento che pervade ed avvolge tutta Torino: un elemento che sottolinea come l'orrore del film maledetto non è tanto il possesso collezionistico, ma la visione (esattamente come per il Necronomicon, o il teatrale Re in Giallo...), vero e proprio rito esoterico moderno, uno dei pochi ancora dotati di vitalità.



Colpisce poi, come accennato, la visione molto negativa della polizia, che non solo contraddice la visione ottimistica tipica del poliziesco italiano, ma sfida in certi punti anche la negatività dell'hard boiled americano originario.



La figura inetta del travet piemontese Fani, che vive il corpo di polizia come un qualsiasi ufficio da Camera Café supera nel cinismo il macchiettismo di Catarella e simili, in fondo bonario e paternalistico, quando lo stesso lascia morire un collega nel tentativo di concupire una donna in stato d'arresto, senza che per questo il suo gesto sia in alcun modo punito nella storia.



Allo stesso modo, i due uomini della polstrada che perseguitano con metodi fascisti i protagonisti positivi non sono un elemento nuovo nel noir (né, purtroppo, della cronaca) ma colpisce il modo con cui la loro attitudine criminale è presentata come elemento ovvio, normale, quotidiano.



(A proposito di fascismo, il collezionista della destra eversiva con cui si scontrano Susanna e il suo mentore rimanda anch'esso a figure realmente esistenti.)



Spicca così in positivo l'unico "poliziotto buono", il commissario Francesca Sanniti, combattiva good cop in ballerine, isolata in un coacervo di incapaci e criminali, che infatti rimane coerentemente sola contro il mostro, venendo sadicamente eliminata dal killer che prima la centra al polpaccio, e poi dopo una lunga agonia crete di terminarla (pur finendo provvidenzialmente in coma, invece di morire).



Figura di detective parzialmente positiva è anche l'inetto-simpatico Roberti, che però è un (parodistico) private eye, in cui la propensione per lo junk food e la sapienza spicciola diviene caricaturale, fino a che anch'egli non viene travolto da un'auto-killer e spedito fuori dalla storia.



Con lui l'atmosfera sembra quasi andare al "Coliandro" di Lucarelli, in un registro meno uniformemente satirico (la protagonista è invece una figura drammatica, non comica) ma con la stessa dose di sarcastico humour nero. Il taglio narrativo della Astori è molto cinematografico, e alcune sequenze si possono quasi già immaginare nel girato dei Manetti Bros.



Meno chiara, più sfumata - probabilmente in modo voluto - è la figura di Di Domenico, l'assessore all'Urbanistica di Torino che diviene Presidente della Regione (salvo poi...). Venerato da uno stuolo di giovani yesman (tra cui l'ex fidanzato di Susanna, Luigi Ferrari, elegante hipster che va in estasi per il Chinotto di Lurisia...), il distinto dominus cinquantacinquenne, signorile, sobrio, altero e pragmatico, può far pensare a varie figure del Pantheon politico torinese, cadute e non.




 





Infine, anche questo romanzo ha una nota espressamente esoterica nella figura di Gray Angel, mago cartomante che collega Susanna all'Arcano XVII, "Letoile". Una donna dai capelli blu, che versa due brocche d'acqua (quelle della Temperanza, carta di poco precedente) in un fiume parimenti blu, sormontata da due stelle blu anch'esse, che testimoniano del reciproco influsso tra geomanzia fluviale e astrologia nella sfera, appunto, celeste. Il romanzo dà una lettura attenta della carta, evidenziando la Fenice, simbolo di rinascita seminascosto su un albero in lontananza. Gray Angel associa Susanna al Blu come colore, rivelandole che ella non è confusa, ma triste: Susanna si sente confusa "come se si specchiasse in un velo d'acqua", confermando l'identità tra la ragazza e la "Stella".







Susanna diviene così identificata con La Stella e, tramite la Tristezza, con la Melanconia (associata al Nero nell'antichità, ma oggi, di fatto, al Blu del Blues): tristezza, ma anche riflessione e quindi simbolo di intelligenza, come la nostra amata protagonista. Inoltre, dato il suo nome, la carta la rende associabile anche alla figura biblica di Susanna, come viene rielaborata nell'arte rinascimentale e soprattutto poi manierista e barocca quale uno dei soggetti accettabili del nudo femminile, in quanto religioso ed edificante. Come nel dipinto del Tintoretto (1555), Susanna è mostrata intenta a lavarsi in una posa simile a quella della Stella.



I Vecchioni che si preparano ad insidiarla, oltre ad aggiungere un pizzico di sadismo alla scena, sono nell'episodio biblico i censori che, respinti, accuseranno poi falsamente la fanciulla (scoperti poi per la contraddizione della loro testimonianza su un albero presente). Essi simboleggiano quindi il censore che usa il suo moralismo per abietti fini personali, antagonista ricorrente di Susanna.



Il Fiume in cui si specchia Susanna, infine, può essere il Po, la Torino esoterica a cui ella è inscindibilmente legata.









Il primo senza Bon Scott.



Il gioco delle citazioni più importanti si chiude con la figura di Bon Scott, che diviene il Virgilio che guida il ragazzino protagonista nella sua allucinata discesa agli Inferi alla ricerca del padre. Il cantante degli AC/DC, morto alle soglie degli ottanta (proprio nel 1980 che dà loro inizio, e in circostanze poco chiare, anche lui su una Renault Rossa come altri due anni prima, nel 1978...) rimanda qui alla figura di Soledad Miranda, nata anch'ella il 9 luglio e figura centrale del primo romanzo.



Gli AC/DC sono tra l'altro uno dei grandi classici del "satanismo musicale": non quello reale, ovviamente, ma quello presunto di una legione di "cacciatori di streghe" iperconservatori che ho sempre letto con piacere (come fiction, ovviamente). La corrente alternata ("io sono il fulmine", dice Bon Scott in una citazione del romanzo...) diventa così, arbitrariamente, Anti-Christ / Death to Christ (alle medie, quando iniziavo a leggere questa robaccia - gli antirocker intendo - mi colpiva che quindi tutta la storia umana era segnata da tale sigla diabolica AC/DC...).



"Highway to Hell", "Back in Black" venivano dunque tutte lette in modo letterale, dimostrando un livello di competenza testuale inferiore a un ragazzo di terza media che ha studiato almeno l'idea di simbolismo in, per dire, Pascoli (altrimenti l'Atomo opaco del male è una più credibile e misteriosa profezia dell'atomica). Il gioco era fin scontato, e mi divertivano più i voli pindarici a reinterpretare altri classici del rock meno facili da decifrare (oggi per questo c'è l'ottimo sito del Centro San Giorgio).



Curioso tra l'altro che mentre l'Astori riscopre la figura di Bon Scott in un giallo dove appare un killer prezzolato, il batterista degli AC/DC, Phil Rudd, venga accusato di aver ingaggiato un killer per compiere una serie di omicidi (qui sulla Stampa, ad esempio).



La Astori in questo romanzo trasforma così Scott in un riferimento positivo, un rovesciamento simile a quello operato dei Manetti Bros in "Coliandro", episodio "666" (2010) sulla figura di Steve Sylvester dei Death SS italiani (tra l'altro, Stefano "Steve" Salvatori, nel romanzo, ha qualche assonanza perlomeno nominale con tale figura).



In questo il citazionismo della Astori si distanzia da quello italiano di influsso "tarantiniano", più legato alla costruzione della trama, e si avvicina a quello dell'inglese Alan Moore, che usa le coincidenze per la creazione di un ulteriore livello, un discorso e messaggio ermetico (qui alcune singolari convergenze che avevo trovato in Century di Moore sulla figura della Astori). Anche il superamento di confini tra realtà e fiction che permea le opere di Moore è analogo alla tecnica del pastiche della Astori come evidenziata in questo romanzo.



Insomma, un'opera davvero convincente, penalizzata un po' dalla natura seriale del giallo Mondadori, e che probabilmente meriterebbe una ristampa - magari dell'intera trilogia. Spero inoltre che le avventure della Marino non si concludano qui, e qualche elemento lasciato aperto qua e là - ad esempio sulla storia personale del commissario Sanniti - fa sperare in futuri sviluppi.



Un ultimo elemento inquietante: la vittima che dà inizio a tutta la catena di delitti, nel 1985, è un certo Barberis. (Barberis era anche un personaggio di Tutto quel rosso, mi dicono alcuni amici. Devo decisamente leggere l'opera).



"La vittima era un certo Barberis. Davide, mi pare. Apparteneva a una famiglia benestante che si diceva fosse collusa con la mala" (p.159)



Non so se in qualche modo sia un omaggio (consapevole o inconscio) ad alcune analisi che ho voluto dedicare all'opera di Cristiana Astori. Ma certo leggere



"Per un istante era tornato ad essere lo spietato sicario al servizio della mala che trent'anni prima aveva freddato Barberis al Movie Club." 



E' un modo piuttosto inquietante di concludere la lettura di un giallo, specie se venato di citazionismo "mooriano" come questo. E quindi, anche di questo non posso che ringraziare Cristiana Astori.