Orfani II - 9 - Tabula Rasa





LORENZO BARBERIS.



Il mese scorso avevo recensito il numero otto della seconda stagione di Orfani, trovando che fosse particolarmente innovativo nel superare la "gabbia" bonelliana pur mantenendo un rapporto con quella tradizione.



Questo numero nove prosegue in quella direzione, cambiando lievemente il target: non tanto nelle immagini (per quanto, come vedremo, continua anche qui la sperimentazione avviata) ma più nel testo.



Il soggetto, scritto da Mauro Uzzeo assieme a Roberto Recchioni, viene sviluppato in sceneggiatura dal solo Uzzeo, che si può avvalere dei disegni di Matteo Cremona coi colori di Giovanna Niro e Fabiola Ienne.









La storia si avvia con la pianura padana dei CSI di "Tabula Rasa" (elettrificata, nel loro caso) da cui emerge gradualmente la figura di Ringo, scandita in nebbiose strisce orizzontali da cui emergono gradualmente i quattro orfani.



Sbaglierò, ma vedo in questa soluzione un rimando alla prima tavola di Nathan Never, nel 1991, ugualmente giocata sulle bande orizzontali, tramite cui appariva gradualmente il protagonista: soluzione allora molto innovativa nel fumetto bonelliano, che ormai invece è accettata e recepita.







Sembra quindi, come dicevo, continuare una riflessione sulla "gabbia", per confermarne la maggiore elasticità da sempre avuta, e accentuarne tale flessibilità al tempo stesso. E così la piattezza orizzontale dell'Emilia Paraonica prelude a una splash page smarginata. Innovazione radicale in Bonelli, che non ha mai amato le smarginature.



In realtà ho l'impressione, anche qui, che non siamo di fronte a una novità assoluta: colore e splash page sono apparse in Bonelli da tempo, ovviamente intensificatesi ultimamente; e così credo pure tavole smarginate, anche se più raramente, magari in singole vignette (senza margini, del resto, è già il frontespizio interno di Orfani stesso).



Ma i tre elementi fusi insieme (e usati in modo sistematico, con una certa generosità) non si erano mai visti. Nemmeno, di nuovo, questo 9 diventa un albo "americano": la "gabbia" resta, come struttura, e quindi come "regola che può essere violata" e che, ovviamente, dà così maggior forza alle trasgressioni.



La storia si concede infatti subito un'altra splash page a p.22, per mostrarci il trionfo mostruoso della carne su cui è incentrato l'albo, ma poi può usare la più classica griglia bonelliana "a mattone" (p.25) dove serve, magari usando, dove viene utile, una "mezza splash page" (p.20, p.24).



Un'accelerazione si avvia a metà albo con una pagina, 42-43, che ricorda per certi versi quella centrale della fearful symmetry di Watchmen. Seguono tavole "a nove vignette", queste ancor di più nell'immaginario del Moore di Watchmen, a p.44-45, poi due vignette "a gabbia", ma quella del 2X3 perfettamente allineato (il Berardi di Julia, ad esempio), il "cinema su carta" di prattiana memoria (la vignetta come schermo). L'uso frequente di tavole "a banda orizzontale unica", frequente in Orfani, può avere il valore di un "cinemascope", e infatti appare a p.48-49 (su 4 strisce) e poi a p.50-51 (su 3, più tradizionale).









Sono soluzioni che avevo visto, mi pare, in alcune cose di Luca Enoch in Bonelli, ma che qui sfociano in pagina 54 e 55 (usate, mi pare, talvolta su Nathan Never), dove si associano, quasi programmaticamente, i due tipi di splash page: quella con griglia, a p.54 (già molto usata, ad esempio, da Recchioni, già in prima stagione) e infine il trittico senza margini a p.55,56 e 57, che dà piena enfasi alla rivelazione centrale della storia.









Dopo aver scollinato la metà alto in modo pirotecnico, l'albo prosegue in modo relativamente più "tradizionale" fino alla conclusione.



La Tabula Rasa sembra quindi citazione complessa: è certo l'albo T.R.E. dei CSI, e in generale tutta la loro decostruzione della cultura emiliana, ma è forse anche la Tavola bonelliana che viene destrutturata e ri-strutturata, a "tabula rasa": ovvero, fino alla dissoluzione di ogni gabbia visuale della vignetta, se necessario.



Inoltre, oltre alla pars destruens della "gabbia" sotto l'aspetto visivo avviene anche la decostruzione della "gabbia" sotto l'aspetto testuale, ugualmente presente in Bonelli (e forse ancora più rigida: quella che, nei primi 2000, obbligava ad esempio sul fantascientifico Nathan Never a spiegare ancora i concetti di hardware, software e così via).



E, ovviamente, la decostruzione della parte testuale avviene quindi tramite i testi dei CSI. Altri online hanno ricostruito la texture, piuttosto fitta, delle citazioni, che comunque Uzzeo intesse in modo che non disturba una eventuale fruizione ignara di questo livello.



Il rischio della sovra-interpretazione è sempre presente, ma la scelta dei CSI non sembra affatto casuale: i CSI, più di altri, hanno fatto un lavoro sui testi delle proprie canzoni che dimostra la ripresa di una profonda cultura letteraria, probabilmente in primis tramite Lindo Ferretti.



Così se, nel numero precedente, Recchioni aveva orchestrato uno sperimentalismo visuale mai visto prima in Bonelli nella gestione della tavola, qui Uzzeo opera una sperimentazione sul linguaggio mai così azzardata, specie in una testata che vuol essere la testata di punta per coinvolgere un pubblico giovanile, come più volte dichiarato.






Il leader mistico un tempo vegano e pacifista, e ora dedito al cannibalismo rituale (chiara maschera deformata di Ferretti, coerente con la deformazione di tutta questa Italia futura) parla sì con citazioni dei CSI e CCCP sparse nel testo: ma il suo linguaggio è criptico, volutamente oscuro e denso anche per un lettore colto.



Non il fumetto popolare, ma spesso neanche quello che Eco direbbe Midcult azzarda tale densità di linguaggio (siamo onesti: nemmeno la letteratura midcult la azzarda).



Naturalmente, non che la Bonelli non avesse autori coltissimi; anzi, la maggioranza proviene da una scrittura letteraria elevata (a suo modo da Gianluigi Bonelli in poi, romanziere "salgariano" prestato al fumetto). Ma a Castelli, a Sclavi, a Medda (per dirne tre) era chiesta una mediazione che lasciava riconoscibile il livello letterario alto, ma doveva anche mediare con ogni lettore della testata (sia chiaro: era anche un lavoro più difficile, un ostacolo in più in quella corsa a ostacoli che si intuisce essere la scrittura popolare).



Qui Uzzeo può elevare il registro stilistico, frammentare, disarticolare e riorganizzare con una libertà che appare molto maggiore. Ovviamente, il lessico dello pseudoFerretti del futuro è solo l'elemento più esteriore, il più immediatamente citabile in un discorso scritto come una recensione (pensiamo alla sua ossessione mariana per la madre: p.75, "dimora della carne, riserva di calore, sapore famigliare, odore..." "...il sangue versato è infetto, ma è cavità di donna che crea il mondo, veglia sul tempo e lo protegge.").





Ovviamente, in modo circolare, il linguaggio testuale è qui citato come spia di un linguaggio del montaggio tavole - di Uzzeo, Cremona e Niro-Ienne insieme - complessivamente più sincopato, più ellittico, meno "facile" anche quando all'apparenza passa per la "nuova gabbia", sia quella più tradizionale, sia le variazioni ormai invalse in Bonelli e che quest'albo consolida nell'uso.



Nel segno c'è (coerentemente, per me, a questo discorso) meno sperimentalismo rispetto all'albo precedente, è il segno "nuovo" ma tutto sommato "in sequenza" con quello precedente di Orfani, così come il colore sfrutta la consueta alternanza di caldo e freddo che è la cifra stilistica di Orfani stesso, coniugando al limite il freddo qui alle brume padane, mentre i caldi sono meno rassicuranti del solido, associati ai bracieri ardenti dei culti cannibalici.



Un lavoro notevole, quindi: e l'unico limite che posso ascrivere ad Orfani, quindi, per nazionalismo sabaudo, è nel suo concludere, a quanto pare, il viaggio on the road dell'Italia postapocalittica nella Milano futuribile e non nell'antica capitale Torino.



Si vede che, su questo, nella milanese Bonelli, l'innovazione ha un limite.