Into The Cutter



LORENZO BARBERIS.

Cutter, al secolo Emiliano Pireddu, è un giovane artista visuale molto interessante. La sua arte nasce da un vertiginoso mash up di moltissimi stimoli visuali differenti, con un risultato in grado di mettere in scena una notevole seduzione visuale, a tratti anche frastornante. A questo rimanda il titolo, in riferimento ovviamente al celebre romanzo di Salinger: un po’ per la facilità del calembour che ci ha tentati, un po’ in effetti perché col giovane Holden l’artista potrebbe condividere la irrequieta  molteplicità di riferimenti artistici, là letterari, qui visuali.

Analizzare lo stile di Cutter vuol quindi dire soprattutto, per uno storico dell’arte, dare ragione della molteplicità di queste influenze; la sfida è quella di ricondurle a una possibile sintesi che offra una minima “mappa mentale” per orientarsi meglio nel suo lavoro. Una sintesi, ovviamente, sempre provvisoria: un’ipotesi di lavoro da cui, ce lo auguriamo, altri possano confrontarsi con l’intrico immaginifico dell’autore.


Tesi: Nagai.

Con una coincidenza che sfiora la predestinazione, per chi ama questa sorta di coincidenze significative, “Cutter” nasce nel 1978, l’anno in cui gli anime giapponesi invadono l’Italia, sbarcando sulle reti RAI con i ciclopici “robot” di Go Nagai.

In Italia, in qualità di “cartoni animati”, erano allora visti come “prodotti per bambini” tout court, e programmati quindi nelle fasce orarie per l’infanzia. Ovviamente subito le associazioni di genitori inorridiscono che la TV di stato legittimi tutta quell’ultraviolenza, e ne ottengono la censura. Un regalo incredibile per la nascente Fininvest (solo dopo Mediaset) di Berlusconi, che accoglierà i nipponici cacciati dalla RAI sulle sue tre reti, iniziando a ipnotizzare una generazione con le loro lame rotanti.

Non è che del resto che gli emuli ante-litteram di Helen Lovejoy avessero del tutto torto: quei primi cartoni erano davvero notevoli.

Negli anime Mecha di Go Nagai, a partire dal primo, Mazinga (1972), un pilota umano si interfaccia con un ciclopico robot che controlla tramite un innesto neurale, contrastando analoghi colossi di provenienza aliena che intendono distruggere la Terra. I fan nipponici più esasperati sottolineano talvolta trattarsi di “esoscheletri potenziati” più che di robot, ma anche questo non è del tutto vero, perché il rapporto del pilota con il colosso d’acciaio non è mai puramente un semplice controllo, ma una complessa mind-machine interface con un cervello cibernetico comunque presente e indipendente (su questo – e altro - indagherà profondamente Evangelion, negli anni 2000).

È la nascita del Cyberpunk, che si svilupperà poi in USA nei secondi anni ’70, con l’avanguardia Mirrorshades, a partire proprio da queste suggestioni giapponesi, omaggiate nelle varie Nuova Kyoto e Nuova Tokyo, e nell’onnipresenza della Yakuza e delle Zaibatsu (anche prima del loro effettivo trionfo negli ’80). Un fenomeno che erroneamente viene confinato nella nicchia del fantascientifico come genere minore (“paraletteratura”, la liquidava sprezzante un mediocre docente universitario di mia memoria), in quanto tramite il cyberpunk è stata interpretata, alla sua origine, la nostra Nuova Era, quella terza rivoluzione industriale basata sulla crisi petrolifera (1973) e lo sviluppo informatico di internet (1974).



Ci siamo attardati su questo riferimento perché indubbiamente, come lo stesso Cutter ammette, è il riferimento visivo più immediatamente qualificante della sua arte. In Cutter c’è molto Nagai sotto il profilo visuale; non c’è molto l’aspetto visivo-tecnologico, che in autori successivi (Masamune Shirow) diverrà ancora più preponderante.

C’è indubbiamente su un altro piano che non quello del segno, ovvero quello della presenza online, del rapporto con l’arte (e la fan-art) dilagante nei meandri dell’internet: un confronto ormai inevitabile per ogni artista delle ultime generazioni, naturalmente, ma che Cutter mette in scena in modo particolarmente attento e perspicace, non solo con la sua personale presenza online, ma anche studiando, catalogando, dissezionando in appositi blog, tumblr, pagine FB il materiale che estrae dal mare magnum della rete.

Va sottolineato che inoltre che nella fase degli esordi (1994) l’autore tenta anche, già subito esperimenti sui video digitali che vengono poi, per lungo tempo, marginalizzati rispetto ad interventi maggiormente pittorici, per quanto Cutter non abbia mai definitivamente abbandonato, almeno idealmente, quel tipo di sperimentazioni.

Il nome d’arte di “Cutter” – per dir subito anche di un’altra suggestione non dissimile – inizia inoltre ad essere usato dall’autore per ricerche musicali legate all’elettronica minimale, ambito in cui l’autore sente l’esigenza di un “nickname di battaglia”, sul modello della Street Art. “Sul modello”: nel writing Cutter non ha fatto molte cose, pur avendo contatti – nella Bologna dell’Accademia, quasi inevitabili – con compagni di corso inseriti in quest’ambito.

Curioso notare come in ambito elettronico (al di là delle intenzioni dell’autore?) il nome Cutter rimandi al concetto di “taglio”, ovvero di campionamento. E Cutter in effetti “seziona” l’arte contemporanea – e non solo - se(le)zionando quanto gli serve da inserire nel suo framework. Cutter è anche un taglierino usato in ambito artistico per profilare un foglio e magari tagliare un’immagine per un collage. Nell’autore ciò non avviene non in senso letteralmente collagistico, ma decostruendo la semiotica di un dato autore per recuperarne, rileggerne e contaminarne il singolo segno del linguaggio.




Antitesi: Pollock.

Dunque: la galassia nipponica, d’accordo. Ma, sul piano visivo, Cutter media poi questi stimoli che provengono dal fumetto e dall’animazione giapponese con la sua formazione accademica, da cui trae nuovi spunti visuali e interpretativi.

La sua trafila è del resto molto regolare: Liceo Artistico con diploma nel 1998, poi l’Accademia, a Bologna fino al 2002 e quindi a Firenze, dove si laurea nel 2004. I primi esperimenti artistici cominciano già dai primi anni del Liceo, nel 1994.

L’Accademia, particolarmente nella figura di Massimo Pulini (autore che negli anni ’80 è stato nome importante della Pittura Colta), non è affatto per Cutter un percorso obbligato vissuto magari con malcelato fastidio, ma un riferimento importante, in positivo, di ambito di confronto e melting pot culturale, da cui derivano appunto le sue references più “tradizionali” all’arte contemporanea.




Nella poliedrica lista di nomi che l’autore evoca, sia nell’intervista preparatoria che abbiamo avuto per questo saggio, sia immediatamente come dato visuale piuttosto evidente, emerge fin da subito il riferimento a Pablo Picasso, il fondamento stesso dell’astrazione con le sue Damigelle avignonesi del 1907.

Picasso è, in qualche modo, l’Accademia in senso moderno ridotta a un nome. L’esperimento della sintesi col manga a partire da Picasso non è tuttavia affatto peregrina, in quanto in Picasso stesso, circolarmente, torna molto di orientale. L’orientalismo di fine Ottocento come moda aveva portato in Occidente i disegni di artisti come Katsushika Hokusai (non lontano, Cutter cita Tsukiyoka Yoshitoshi) e se di questi paradigmatica è l’Onda zen del 1831, l’opera più famosa – per ovvie ragioni – è “Il sogno della moglie del pescatore”. Ebbene: Picasso, nel suo confronto con le tradizioni non-occidentali, ha esplorato (con una versione decisamente erotica) anche questo modello. L’operazione di Cutter, che parte quindi da Picasso e produce le opere del ciclo “Nut”, ha una sua circolarità, un suo ritorno alle origini. C’è già del Giappone in Picasso, in qualche modo, e questo ne fa un buon elemento di mediazione.




Più direttamente, Cutter sembra ispirarsi alla serie dedita da Picasso al tema del Minotauro e della tauromachia, a lui particolarmente cara e sviluppata tramite incisioni preziose dove il Gran Maestro dell’astratto mostra talvolta la scarnificazione progressiva del segno con intento quasi didascalico. In una linea ascendente “spagnola” vi potremmo trovare anche certo Goya, quello delle incisioni ovviamente, cupe e paradossali.

Anche in Cutter vi è la ricerca di questa essenzialità del segno, che porta a una radice dell’astratto nel segno simbolico catacombale paleocristiano (reference che non è priva di un certo gusto paradossale: sulla scia di Picasso, si sarebbe potuti anche tornare ad altri segni primigeni come quelli di Altamira, ugualmente mistici e simbolici).

Il discorso del segno di Nut si amplifica in Bic, programmaticamente identificato con il “grado zero” dello strumento grafico, la penna a sfera, oppure i lavori nel segno immediato e grezzo dell’Uniposca nero, anche questo a suo modo molto “fumettistico”.




Dopo Picasso, un altro riferimento che spicca in particolare è quello a a Jackson Pollock. Un rimando che, associato alla suddetta ripresa del segno manga di Go Nagai, indica fin da subito la scelta della lectio difficilior, dato che il lavoro più immediatamente consequenziale (ripreso infatti da altri nel neopop) avrebbe potuto essere la prosecuzione della pop art con altri mezzi: sostituendo cioé ai fumetti americani citati da Warhol e Lichtenstein i prodotti dei mangaka orientali.

Pollock è invece, negli stessi anni, l’anti-popart per eccellenza (Warhol lo riteneva, con una punta di ritegno, un barbaro, un “teppista”).

(Una curiosità veramente digressiva: à propos di conciliazioni col fumetto, Jan Pollock era il titolo di un fumetto bonelliano di Ambrosini del 2008, con cui per la prima volta si tentava un protagonista non-detective, ma critico d’arte. La Bonelli lo censurò nel più “eufonico” e accettabile Jan Dix (annullando così tutti i simbolismi su cui si reggeva il primo albo). La scelta di partenza (Cutter viene prima) però era la stessa, una sintesi non per vicinanza ma per contrasto.).

Il rimando a Pollock vale come punto mediano di una immaginaria “mappa concettuale” dell’espressionismo astratto nella costellazione dei valori visuali di Cutter: a tale movimento si può ricondurre anche De Kooning tra i riferimenti evidenziati dallo stesso autore, ed altre esperienze non del tutto dissimili come quella europea del Gruppo Cobra; mentre al Neo Expressionism vengono ricondotti sovente David Salle, Julian Schnabel, Anselm Kiefer. I Fauves, da Cutter citati, sono spesso posti come antesignani di un espressionismo storico parallelo a quello più angoscioso dei tedeschi.



Alcuni dei riferimenti artistici evocati da Cutter sembrano andare a indagare il segno manga o più in generale fumettistico: Takashi Murakami, Shueiro Maruo e Junko Mizuno per la rilettura – in vari gradi e modi - del fumetto orientale in chiave artistica, Charles Burns come maestro del fumetto occidentale a livelli elevatissimi dell’arte. Anche l’Akira Kurasawa di Ran e di Sogni diviene per l’autore una chiave per decifrare il colore in rimando a questo immaginario, anche se su scelte diverse dal massimo cineasta nipponico (che guardava alle cromie impressioniste: anche se, a questo punto, un semplice link ci separa di nuovo dai fauves...). L’uso stesso del Pantone, che Cutter sviluppa negli anni dell’Università, è il rimando a un “segno di contorno”, tipico del fumetto (anche Andrea Pazienza, ad esempio, era un grande fan dei Pantone).


Takashi Murakami

Con una crasi piuttosto ardita possiamo ritornare da questi rimandi  ad un terzo nome che ricorre molto nelle sue opere, Francis Bacon. Un Bacon anche riletto con le lenti di certo cinema, come quello di Lynch (Eraserhead su tutti) e Cronenberg, che hanno ripreso il tema della frammentazione dei corpi e hanno formato l'alto modello di tutto un cinema orrorifico anni ’80, oltre lo splatter, nel body horror e nel gore.





Francis Bacon quindi è (come già, seminalmente, Picasso), punto di mediazione molto avanzato, trovato però in modo eclettico al più ovvio percorso comics-popart che si poteva delineare. Tutto il gore nipponico, del resto, ha debiti, intersezioni, meriti rispetto a tale cinema: ma rispetto a questo va sottolineato come Cutter, pur non rifiutando affatto l’immagine “tagliente”, vada anche giustamente ad “asciugare” il segno: c’è questa influenza, ma per paradosso non c’è mai troppo gusto del sovraccarico, dell’affastellamento dell’epater le bourgeois fine a sé stesso.

In qualche modo, tramite la chiave di Bacon, Cutter va anche a tangere un altro problema ineludibile, stante la sua ricerca di fondo: ovvero tutto il discorso dell’Art Brut dei nostri tempi, di una FanArt che – anche nella cultura di massa occidentale, stante l’egemonia degli anime – riprende con ingenuità grezze ma a volte più libere fino al geniale l’immaginario nipponico più radicale, esplodendo fuori dai nostri schermi come un videodrome del 2000.

A sfuggire a questa equazione mi sembrano soprattutto le Dolls, dove il segno si fa più morbido e coerente, senza le volute sbavature dei lavori precedenti, ma con un segno controllato e cristallizzato. Vi è anche un rimando – non ingenuo – al “troppo finito”, per così dire, di Mark Ryden, senza caricare ai punti dell’autore, ma riprendendone l’intenzione. Ma anche, sia pure in questo lavoro più “equilibrato”; qualcosa di inquietante permane, forse dalle parti di Hans Bellmer (che, tra l'altro, torna anche nel mecha-anime Evangelion, chiudendo anche questo cerchio).


Hans Bellmer


Evangelion


Sintesi: Dante

Cutter quindi, abbiamo detto, rilegge il Nipponico (visualmente dominante anche da noi, dagli anni ’80 in poi) tramite l’Astratto delle Avanguardie Storiche (dal gran maestro Picasso in poi). Tuttavia, in modo implicito e intuitivo più che dettagliatamente analitico (cioè, appunto, nel modo che compete all’artista), a volte sembra che Cutter riscopra anche quanto di nipponico vi è nell’astrazione contemporanea, nei “nipotini di Picasso” appunto.

Tuttavia avviene anche, e in misura forse maggiore, l’opposto: Cutter recupera quanto di “occidentale” vi è già nel manga (e che spiega, del resto, il suo successo qui da noi).
Fondamentale è a questo proposito il riferimento a Go Nagai. Abbiamo già detto del suo cyberpunk seminale: ma la sua genesi è particolarmente interessante.


Dorè

Mao Dante.

Go Nagai  aveva cominciato sul finire dei ‘60 una riscrittura della Divina Commedia dantesca che partiva dalle incisioni di Gustave Dorè, mescolando il tutto con il mito degli Oni (i “grandi antichi”, i titani nipponici, in parole povere) nel suo orrorifico “Mao Dante”. La serie non fu mai completata, anche se in Giappone, ovviamente, scandalizzava di più sotto il profilo religioso la dissacrazione del mito degli Oni e dei samurai che li fermeranno alla fine dei tempi, roba seria mescolata malamente con quel guazzabuglio medioevale degli occidentali. Nagai per inserire il suo discorso, troppo radicale, nel mainstream nipponico d’allora ricorre quindi a un adattamento che non è una pura edulcorazione; e così, in qualche modo, rafforza e rende più attuale il suo lavoro sul “demoniaco”, superando così un certo manierismo dantesco non poi così perfettamente compreso (Doré è solo il punto d’arrivo di una tradizione occidentale ben più profonda di rilettura dell’Inferno).



Può giovare ricordare che anche Cutter ha riesplorato la Divina Commedia, in qualche modo, illustrando la “Bestiale Commedia” del suo amico letterato Alessandro Barocchi, che al testo dantesco sia pur ecletticamente rimanda. Ma al di là di questo lavoro più illustrativo, riferimenti al demoniaco sono presenti in Cutter, e sicuramente il manga è qui elemento di mediazione importante che, però, può anche diventare “schermo” in grado di mascherare rimandi più profondi e corposi a tutta una tradizione che si diparte dal Gotico, dove il “segno infero” era centrale.

Gotico monregalese

Devilman di Nagai

Basti rimarcare un’attinenza che non deve sembrare così superficiale: il fumetto (nipponico e non) si basa, come il gotico, sul “segno di contorno” che sparirà (con lentezza e non univocamente) con lo sviluppo del rinascimento nell’arte “alta” (similmente, oggi, l’abolizione del segno di contorno è una delle tipicità del fumetto più “artsy”, quello che si vorrebbe addirittura emancipato dai comics in graphic novel). Inoltre, nell’affabulazione del mostruoso, gotico e nipponico sono accomunati da un minor grado di remore rispetto al mainstream occidentale dal Rinascimento in poi.




A un Codex Demoniacus può essere ricondotto anche il Moleskine, uno dei progetti più avvincenti di Cutter, che va creando sulla carta dei celebri quaderni una sorta di Liber Voynich, di Necronomicon visuale (e per molti le illustrazioni, non i testi custodiscono i veri segreti dei manoscritti ermetici dal Rinascimento in poi, per sfuggire a una inquisizione ancorata a un modello medioeval-testuale, e per culto della prisca lingua per immagini, ieroglifico-egizia). Figure quindi demoniache non nel senso banalmente orrorifico, ma come già in Dante (e poi in Lovecraft, specie quello riscoperto da Houellebecq), figure di un percorso conoscitivo che è quello che poi sfocia nell’arte (e della cultura) contemporanea: la deformazione dell’umano come chiave di lettura ideale per leggere l’umano.

Cutter dunque, nel mediare nuovamente il manga con la tradizione artistica occidentale, fa in fondo un processo non dissimile a quello di Nagai nel suo volgere in ipertecnologico il suo demonico: tutt'altro ovviamente che una autocensura, ma una riscrittura che toglie ciò che è maniera e vi dà più forza.

In questa possibile chiave di lettura anche lo stesso warname “Cutter” assume l’essenza di un nome fin da subito “tagliente”, che si potrebbe dire “aggressivo”, ma in un senso appunto “sottile”: “tagliente, affilato, acuminato” è termine che associamo più all’arguzia, al sarcasmo, all’ironia corrosiva che all’aggressività vera e propria: è in qualche modo il riso demoniaco della Commedia di Aristotele (e Dante) che Jorge da Burgos tenta inutilmente di cancellare nel Nome della Rosa.

Insomma, anche le opere che non omaggiano esplicitamente questo tema dell’Inferno Gotico ci sembrano poter essere interpretate tenendo conto anche di questa ulteriore chiave di lettura.

Ma, del resto, il lavoro di Cutter è così multiforme che anche questa sintesi è, probabilmente, solo una suggestione fuggevole e transitoria, destinata ad essere superata dai nuovi sviluppi del suo multiforme lavoro.