Dylan Dog 351 - In fondo al male







LORENZO BARBERIS.





Spoiler Alert, as usual. Leggere prima l'albo.





Superato lo spartiacque del 350 con un (non)celebrativo a colori di Ambrosini, il 351 rilancia con l'esordio su Dylan di Ratigher alla sceneggiatura. L'impatto, come vedremo subito, è molto potente, e ci trascina davvero nelle profondità del gorgo abissale in cui Dylan è caduto in questa fase, a volte in modo più palese, a volte dissimulato (ma sempre presente): mai così cupo e radicale come qui.





Fin dalla cover di Stano, perfetta per l'albo, emerge la citazione del seminale maelstrom di Edgar Allan Poe, uno dei suoi orrori più inquietanti. Il titolo, data l'ambientazione marinaresca (altissimamente simbolica), gioca anche sull'ambivalenza male/mare che ricorda anche Sirenette disneyane, ma è una suggestione rassicurante come le filastrocche infantili in Nightmare.





Ratigher, a mio avviso il più interessante nuovo nome del fumetto italiano autoriale dell'ultima generazione, costituisce indubbiamente una rottura, se non in Bonelli, almeno su Dylan Dog. Si tratta del primo nome radicalmente estraneo al fumetto "popolare" e bonelliano, e in generale alla letteratura di genere. 





Significativa quindi la scelta di affiancarlo ad Alessandro Baggi, al suo esordio sulla serie regolare anch'egli (ma che già si era confrontato con Dylan sul gigante e, nel nuovo corso, su Old Boy). Autore molto bravo: ma da un segno ostentatamente classico, quasi retrò, anni '50 in alcuni punti. Ratigher infatti è associato a un segno underground, molto curato ma disturbante, nelle sue opere: qui invece si trova a padroneggiare un segno diametralmente opposto, giocando profondamente su questo contrasto e sui paradossi del formato del "fumetto popolare".





Si comincia con due tavole mute, molto belle, dal taglio rigoroso e asimmetrico, la cui importanza fondante sul piano simbolico si schiuderà nel finale. Abbiamo infatti il naufragio della "Eternal Hope" che lascia solo più un salvagente (ma con solo scritto "Hope", con la perdita della prospettiva d'eternità). Viene in mente Verga, e il naufragio della Provvidenza che dichiara il rifiuto del realismo provvidenziale manzoniano. 













Le tavole 7-10 rovesciano volutamente tale prospettiva, offrendoci un esordio illusoriamente classico. Ma già il finale di pagina 10 apre (letteralmente...) al disturbante. La solita dinamica erotica tra Dylan e la cliente è subito violata nel suo ritualismo rassicurante, evolvendolo in un eccesso, uno squilibrio che ce lo rende fastidioso (e getta una luce cupa anche all'indietro, su tanto facile dongiovannismo dell'eroe). La spiegazione psicologica del lutto per l'amica scomparsa è fin rassicurante: nell'avanzare della storia prevarrà il trionfo del non-senso assoluto.





A parte l'uso magistrale di "tavole mute" dall'ottimo montaggio (15,18), tutta la scena del funerale continua a giocare coi piani: accetta la classica finalità didascalica di presentazione rapida del villaggio maledetto, ma la svuota dall'interno in un agire frammentario, scoordinato, tra voluti stereotipi e salti irrazionali, esagerati. 





Continua anche un sottile gioco sul religioso che riprende certa libertà espressiva del primo Sclavi (la vignetta 21,v) senza più scene eclatanti, ma con singole immagini significative nella storia (già avvenuto ne "Il Calvario" di Gualdoni, e di recente nel 350).













Il dolore di Fiona è drammatizzato in modo efficace, antiretorico, ma in fondo realistico, credibile. Il disordine della sua casa riflesso angoscioso di un disordine esistenziale che, la scena chiarisce, è antecedente e parallelo alla morte di Molly. Insistita la "camera" su Peppa Pig, in 25 e 34: forse in mera connessione al gusto per il dettaglio di queste tavole, ricche di focalizzazioni sul particolare, forse qualche più forte simmetria nascosta che ora sfugge (anche solo, banalmente, Molly come "scrofa", stando alle beghine del paese, 21).





La splash page a 32 (seconda dopo l'incipit, e prima del turbinio del finale) introduce il tema dei Led Zeppelin e di Houses of the Holy, cui è potentemente ispirato l'albo. Di nuovo, Ratigher non rifiuta affatto il didascalismo del popolare (formalmente, la sequenza 34-35 è quasi da Martin Mystere) ma lo piega ai suoi scopi, facendone uno strumento di straniamento. Non viene esplicato oltre qui, ma il gigante Finn (35,ii) è identico al "vecchio saggio pescatore" che è la coscienza di Port Frost. 





Ovviamente, la "scala dei giganti" è anche una rovesciata "Stairway to Heaven", e dato il nome del luogo, forse parla rimanda anche a Robert Frost, alla scelta della "strada meno battuta".





Ad esempio, dopo l'apparente poesia di 37 e un Dylan "in parte" ("sei strano... sei buono"... addirittura sdolcinato il confronto in un minimo dettaglio di 37,iii / 37,vi), notiamo un salto all'anaffettività (38-39) tipico del nuovo "Dylan della decadenza" (cioè, quello del Rinascimento Dylaniato: la decadenza intradiegetica è per un paradosso - credo voluto - il segno della rinascenza a livello extradiegetico).





Ma poi, di nuovo, il "vecchio saggio", la violenza gratuita che dilaga (bellissima ed emblematica pagina 50, lo spartiacque dell'albo - dato il luogo, Molly's Lips è più probabilmente citazione della canzone degli scozzesi Vaselines che dei Nirvana), perfino il personaggio comico-inquietante del Sindaco, sono riprese - ad alti livelli - di classici della narrazione dylaniata, e orrorifica in generale.





Ma oramai il rientrare della narrazione "nei ranghi" non ci rassicura più, perché siamo consapevoli di quanto sia sottile questa apparente patina di normalità dylaniana. Per contro, soluzioni eleganti e inquiete come le prime due vignette di p. 59 passano quasi come usuali.













La potentissima sequenza che inizia a pagina 66 (bene anticipata dalla tavola precedente) e ci conduce a 70, palesando il rapporto tra il gorgo e il tempo, a più livelli, prelude al drammatico finale. 





La splash marginata a 76 prepara la smarginatura a tutto campo di p.77, dove l'irrompere di un segno d'avanguardia dopo uno stile controllatissimo dosa alla perfezione la potenza esplosiva dell'immagine. Il livello metaletterario, importante nel rinascimento dylaniato, ha qui il suo spazio (che è comunque una nota a margine nell'orrore esistenziale generale della storia) nella terrificante didascalia della tavola.





La "discesa agli inferi" finale è di nuovo calibrata con una precisa crudeltà di grande potenza. La sequenza 82-84, con la sua icastica chiusura, è quella che ho trovato più struggente. Appare qui tra l'altro la citazione dei Rolling Stones, pietra angolare che sovrasta quella triade infera (Black Sabbath - Deep Purple - Led Zeppelin) evocata da Recchioni in apertura. Pietre rotolanti, come quelle che generano questa scala dell'inferno abissale marino.





La sequenza del padre di Molly (benché indubbiamente sia orrore, e orrore difficilissimo da maneggiare) è meno potente, forse proprio per la pericolosità del materiale usato che induce a una certa cautela. Vi è però di nuovo, tra le righe, il tema del sacro in 86,i, e le due immagini qui accostate non sono probabilmente casuali.





Ovviamente, oltre che a Nietzche, la discesa abissale fa pensare al Lovecraft del suo esordio in "Dagon" (1917), dove l'orrore del fondo del mare nudo riflette col senno di poi (lui negava) gli orrori europei appena avvenuti (anche Houellebecq, del resto, ha recentemente avvicinato il nichilismo dei due autori). L'Europa lago di sangue del sogno di Jung è in fondo simile alla distesa asciutta di Ratigher e HPL.





La sequenza finale, con la condanna della Speranza come illusione (ambigua, per carità, e sempre "comprimibile" nel suo significato filosofico col "contesto" del personaggio, della storia, del delirio onirico e quant'altre cornici rassicuranti possibili - qui però non evocate) si accompagna a una lunga sequenza unica di splash pages smarginate, un'unica lunga teoria da p.92 a 98, fine albo (superando in innovatività la pur bella "doppia splash" con margini di Pontrelli, in Halloween Express, sull'ultimo Old Boy).





Innovazione nei contenuti e nella forma (se mai si potessero distinguere) camminano di pari passo, intersecate. La chiusura è circolare, nella forma del salvagente (evocato anche in copertina) che porta dalla prima pagina a qui, e volendo viceversa.









Ratigher ha davvero squarciato la maschera dylaniata, come prometteva nel suo primo omaggio al personaggio, all'inizio della rivoluzione editoriale. Vediamo quanto ora i segni incideranno in profondità nel prosieguo di questa discesa agli inferi, e se vi sarà una rinascita, e come. Ma nell'oscurità assoluta di questa storia è segnata anche la forza del personaggio, quella che trova non alla fine dell'abisso, ma nel momento in cui decide di scendervi in ogni caso, come un viandante friedrichiano su un mare di tenebra (78). 





Quando guardi dentro l'abisso, l'abisso guarda dentro di te, è l'ovvia chiosa per quest'albo. 


Ma, nonostante la profondità interminabile del Male, e pur nell'assenza di speranza, non è dato per scontato che sia l'abisso a vincere.