Dylan Dog Color Fest - Tre passi nel delirio.







LORENZO BARBERIS



Spoiler alert as usual: leggere prima l'albo



Il Dylan Dog Color Fest 16 segna indubbiamente una forte discontinuità anche su questa testata dylaniata, una rottura in cui il cambio di formato (sottile ma importante) si accompagna all'ingresso di quattro autori profondamente innovativi rispetto ai canoni bonelliani.



La potente copertina è di Arturo Lauria, che Recchioni nell'introduzione presenta come "nostra personale scommessa per il futuro" dylaniato, promettendoci che "ne sentirete parlare spesso". Il "Colonus" americano di Lauria è stato citato da "Big Bang Theory": ma al di là dell'anedottica, il suo segno basato su bianchi e neri a forte contrasto appare ideale per Dylan Dog.



La scelta di presentarlo con una cover del Color Fest è ovviamente, e volutamente, paradossale: non si usa infatti così la seduzione del colore in modo "ingenuo", coi rutilanti effetti speciali in stile "all in colors for a dime", ma si offre un duro contrasto monocromatico di rossi e neri di enorme potenza visuale. Stili "sintetici" (per comodità, usiamo tale definizione) sono da sempre possibili in Bonelli, specie su Dylan Dog (Dall'Agnol, un esempio su tutti); raramente li si era visti applicati a una copertina.



All'interno, il curatore Recchioni spiega le principali innovazioni introdotte: la riduzione del numero di pagine alle convenzionali 96, con contestuale diminuzione del prezzo che si attesta sui 4 euro e 50. Il prezzo dei suoi "Orfani", del resto, con cui il nuovo Color Fest condivide il passaggio alla carta opaca, per un colore di nuovo "più naturale".



In questo ambito si è mantenuto il canone della storia breve a 32 pagine che contraddistingue il Color dai suoi esordi, riducendo le storie a tre; ma in futuro la sperimentazione diventerà assoluta, dalla storia unica a molte iperbrevi. La cadenza aumenta a trimestrale, raddoppiando, e già a maggio ci attenderà la "Baba Yaga" di Barbato e Saudelli, a storia completa.







Le tre storie dell'albo, poi, raccolgono il meglio del fumetto sperimentale italiano, autori anche molto lontani dai canoni bonelliani (e che non avevano mancato, mi pare, anche dure polemiche verso la fissità Bonelli, in passato). Tre storie di "autori completi", tra l'altro, segnando una autorialità ancor più marcata.



Si comincia con Ausonia, con "Sir Bone - Abiti su misura". La storia è di una inquietudine lancinante, e viene subito da pensare al suo Pinocchio di carne, per quanto la struttura narrativa sia comunque diversa.



La storia - che a suo modo possiede anche un buon tasso di splatter  - rispetta come le altre tre la classica splash page di apertura del Color Fest. Non è palesata come If Story, ed è quindi quella che (teoricamente) incide maggiormente sulla continuity del personaggio, poiché rivela come gli abiti di Dylan siano rinnovati tramite uno dei vari Inferni una volta ogni anno.



Appare possibile un livello metanarrativo (confermato dall'autore): gli abiti di Dylan, il suo ennesimo irrazionale feticcio, sono la "camicia rossa di forza" della serialità che marcisce e va rinnovato "ogni dodici mesi", con un nuovo passaggio nella sartoria infera di Sir (si legge ser, ovvero Sergio) Bone(lli). Si potrebbe addirittura leggere in questo un rimando al nuovo stile imposto da Recchioni, una blanda suddivisione in "stagioni" annuali.



Le signorine Claretta (Petacci?) tutte identiche sono il primo livello di questa discesa agli inferi sartoriali, l'interfaccia ancora normale col mondo esterno; una di queste conduce Dylan col suo Baphomet (8.vi) fino all'ingresso infero di Sir Bone, "sarto su misura" (l'inglese è ancora più perfetto, "Custom Tailoring", in 9.i, col riferimento al customer, il "cliente": il fulcro dell'est-etica bonelliana, fino all'ossessione).



La splash page di p.10, con suo riferimento alla Regina Madre, può essere un'allusione alla continuity (abbiamo lasciato John Ghost tra le mani di una regina madre chtuliana, molti numeri fa).



Mike media all'incontro con Mister K., kafkiano signore di questo luogo (e al mar delle blatte kafkiane Ausonia aveva dedicato un altro comic). Se vogliamo mantenere la metafora fumettistica Mike (umano: è uno sceneggiatore, un "simile"; ma anche mi-ke, m.k "in piccolo") un curatore, Mr. K. il direttore editoriale.



Il signor K., con la sua frenetica passione per i superlativi, è "tutto corno" (14 e seg.), aggressività ed efficienza pungente: rapidissima è anche la ricrescita delle corna del cadaverico Mr. Bone, di cui lui è evidentemente una emanazione, priva di volto perché priva di autonoma personalità: una funzione più che una persona, o meglio una persona divenuta funzione, il "procuratore generale" della Metamorfosi di Kafka.



A p.16 incontriamo Sir Bone, un "demone maggiore" defunto, ma che continua a produrre

con un processo alchemico particolarmente repellente.



Le "vesti nuove" di Dylan, novello valentino pascoliano, richiedono un inesausto sacrificio di omuncoli (26.iii). Si ricordano anche le stringhe rosse delle Clarke: lo studio del canone è notevole (p.25). Se volessimo seguire il piano meta-letterario, il rinnovamento dylaniato richiede il sacrificio costante di nuove storie sull'altare della bonellianità; gli uomini-capra trattati malissimo potrebbero essere gli autori (a Dylan dispiace così tanto, 28.ii). Tra 28.iv e 29-30 molti elementi di Claretta sembrano farne una metafora del lettore; o meglio, del lettore-ideale alla Eco, colui che porta il personaggio a farsi imprigionare negli abiti su misura (per il pubblico, non per l'eroe).



La battuta di Groucho in 32.i,ii è particolarmente inquietante, anche se dovrebbe sembrare il "ritorno alla normalità". Il fatto che Groucho riconosca Claretta probabilmente depone del fatto che anche lui è vittima dello stesso tipo di rapporto con Sir Bone (notare la cura con cui ripone i suoi stivali, in 32.iii-iv).



La splash page in 33 chiude la storia e ritorna alla "normalità". "Rossa come il sangue", della ragazza della storia, rimanda al "nero come la morte" di Mr. K.: l'inquietudine del seriale non è conclusa, ma continua in questa stanca regolarità.



"Grick Grick" di Marco Galli mette in scena un demone potente ed essenziale, un puro spirito divoratore che infesta la casa di Craven Road. La "ragazza della storia", Genny, ha un tatuaggio piuttosto vistoso, evidente fin dalla splash page iniziale.



L'arrivo del demone è preannunciato, in 38.i, dall'ingresso in scena di una jena che appare proprio davanti a casa di Dylan, vicino al maggiolino dell'eroe. Inizialmente Genny sembra quasi simpatetica (40.ii) col mostruoso demone sovrappeso, nonostante la croce di ferro prussiana (ancor più delle ali luciferine) paia deporre per una lettura negativa, malvagia e non patetico-sclaviana. Il suo aspetto pare rimandare all'"elefante nella stanza", espressione idiomatica di derivazione inglese che indica un problema enorme che però si fa finta di non vedere (esattamente come, nella storia, ci si comporta col mostro).



In 43.i c'è una figura (con All Star ai piedi) nascosta in un angolo davanti a casa di Dylan, forse il ragazzino del finale. In 45.iii è ormai passato il tempo e Genny è divenuta insofferente: forse il mostro si nutre della sua empatia, come un vampiro psichico, consumandola (il mostro appare, e sta, davanti a un manifesto cinemico di Nosferatu, ben visibile in 58.iii). La cosa pare confermata da tav. 48 dove ritorna il parallelo con la jena/cane randagio: nutrirli non li sazia, anzi, aumenta il loro appetito.



Il mostro si ciba anche delle energie di Dylan (51) che, più buono, si prosciuga più lentamente di Genny, che abbandona la sua iniziale pietà (vedi anche 49.iv) e diviene sempre più insensibile, come sottolineato dal parallelismo tra la sua bocca e quella del mostro, tra la posa del cane-jena e quella sua in 54 i-ii. Giunta al peggio, viene compiutamente "divorata" dal mostro, mentre se ne va. Anche il cane pare soddisfatto (64.i).



Il mostro ritorna in un'altra casa, dove un bambino lo fissa con intenzione. Notiamo che ora ha una sorta di elmetto nazista (66.ii), quasi a indicare il suo peggioramento. Viene il sospetto che il diabolico fanciullo sia la presenza umana di p.43, e magari anche la madre è morta vittima del suo influsso psichico, che sta ora distruggendo la matrigna.



La terza storia, di Aka B (spazi e "k" sono importanti) è intitolata alla Claustrofobia, ed è forse quella più metaletteraria sotto il profilo strutturale (mentre la prima storia, quella di Ausonia, lo era in chiave contenutistica). Il pozzo profondo in cui Dylan è incastrato sembra quello della griglia a mattoncino (vedi p.68), che Dylan riesce a sopportare solo con le sue eterne convenzioni (il galeone, p. 70). L'ironia sulla gabbia pare tornare in 71.iv-v, mentre la riflessione metafumettistica diviene via via più evidente col prosieguo della storia.



Notevole p.79 col riuscito effetto di accumulazione (i nomi, a quanto ricordo, sono veri: non sono tutti). La rottura della quarta parete a p.93 disvela il gioco definitivamente (molto bella 94.v, che riprende il gioco dell'elencazione dei nomi nella rotazione delle teste) e si permette anche un piccolo cameo di Xabaras e Morgana (95 vii-viii).



La riflessione di Aka B, tutto sommato onestamente pessimistica come quella di Ausonia, conclude l'albo con un'ultima bella splash page (molto usate in questo terzo capitolo) che non dissolve tuttavia la claustrofobia (tavole più ariose sono solo una gabbia più grande).



*



Insomma, nel suo complesso il trittico di storie costituisce un bel lavoro di decostruzione di Dylan Dog da parte di tre nomi importanti del fumetto non-seriale, con la giusta causticità e crudeltà (che, in modo diverso, è stata ultimamente messa in scena anche da autori più tradizionali). Un controcanto al lavoro di Ratigher sulla regolare (non a caso), dove la decostruzione avveniva necessariamente più "all'interno" della struttura del personaggio: qui sono tre sguardi esterni, attenti ma freddamente impietosi.



Il prossimo numero, comunque, evita una reiterazione (e il rischio di saturazione) e si affida a un numero unico, come detto, di Barbato e Saudelli. Il nuovo sperimentalismo dylaniano attende una la sua prossima tappa.