Fino alla fine della rete










Sotto la camicia la mano cibernetica sfiorò la pelle, muovendosi dal
seno all’addome, per poi risalire e scendere di nuovo lentamente, mandando in
tilt tutti i recettori nervosi. La plastica pretendeva altra carne, e il
cervello avrebbe ubbidito senza opporre resistenza. La porta del piacere si
sarebbe spalancata poco oltre il monte di Venere: un dito di plastica percorse
le pieghe umide della carne, penetrandola. Un’onda di calore si generò da quel
punto e s’infranse violentemente nelle meningi.



(da “Fino alla fine della rete”)





LORENZO BARBERIS





“Fino alla fine della rete” di R.V. Beta è un curioso caso
di cyberpunk “fuori tempo massimo”.


I fondatori del movimento, Gibson e Sterling, proclamarono
più o meno la fine del movimento verso il 1991, con l’uscita del loro libro “La
Macchina della realtà” che introduceva il nuovo genere dello steampunk, un
retrofuturo alternativo di età vittoriana.





Del resto, col 1991 la nascita del cyberspazio sembrava una
cosa assodata: da un lato il crescente sviluppo del Web (i cui protocolli erano
nati in quell’anno al CERN di Ginevra, permettendo di universalizzare gli
sviluppi della rete internet del 1974), dall’altro la realtà virtuale, i cui
primi esperimenti sembravano sul punto di essere commercializzati con successo.





Unite insieme come due scoperte nel videogame strategico
“Civilization” (1991, ancora una volta), le due tecnologie avrebbero portato
alla nascita della rete. Le cose andarono poi diversamente. Internet ebbe un
enorme sviluppo, divenendo ciò che è ora, ciclopica mappa virtuale superiore al
territorio; la realtà virtuale esterna langue, per non parlare del sogno della
RVI, ancora al di là da venire.





Il 1991, curiosamente, è anche l’anno di uno degli ultimi
casi di “fantascienza d’autore” (ovvero incursione nella SF di un grande nome
del mainstream): “Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders, che non a caso,
forse, questo romanzo di R.V. Beta viene a citare.





Psedonimo giustamente significativo, tra l’altro, quello
dell’autrice (altra singolarità nell’ambito fantascientifico, ancor oggi, anche
se meno di un tempo e in un genere che, da Mary Shelley a Katrin Bigelow
passando per Ursula Le Guin, ha comunque nelle donne alcune autrici fondanti).
R.V. rimanda alla realtà virtuale, ancora in una eterna “fase beta” prima del
release definitivo.





Anche l’anno di edizione, il 2013, appare paradigmatico: è
l’anno di ambientazione (palesato fin dal titolo) di “2013 La Fortezza”, film
cyberpunk particolarmente intriso di paranoie complottiste che in seguito
sarebbero deflagrate nel mainstream. In verità, l’anno di ambientazione
nell’originale americano era il 2017 (il prossimo anno, ormai), ma le reciproce
superstizioni portarono al cambio di data.





Bella anche l’illustrazione di copertina di Katrina
McCollough, anche questa con l’aria di un immediato retrofuturo, che avrebbe
fatto un figurone su qualche rivista di nicchia cyberpunk di quell’età gloriosa
(su carta o già online? Forse, l’ideale: su floppy
disk
).





Il claim con cui ci accoglie il sito è un raffinato gioco
ironico metatestuale: “ESPLORA UN MONDO IN BASSA RISOLUZIONE, POCHI POLIGONI E
TEXTURE GROSSOLANE, IN UN VIAGGIO DOVE LA VOODOO2 NON TI HA MAI PORTATO!”





L’opera, infatti, come detto, è un classico del cyberpunk,
toccando pressoché tutti i topoi del
genere. Una ragazzina manga-style (o hentai-style, decisamente?) che ha con la
cybernetica un rapporto viscerale ed erotico trascina un impiegato
cyberkafkiano nella ricerca del più archetipo locus amoenus virtuale: l’Isola-Nella-Rete, la realtà virtuale
celata tra le pieghe del ciberspazio. Ma, al tempo stesso, leggendo una
possibile metafora, potrebbe essere una possibile descrizione del romanzo in
sé, del concetto stesso appunto di romanzo: un mondo a bassa risoluzione, senza
poligoni e texture raffinate, ma che può spingersi dove non osano ancora i più
avveniristici videogame.





Infatti, più che ancora che il contenuto, è la forma ad
essere perfettamente rispondente allo zeitgeist dei primi ’90: il rapporto
malato con la tecnologia, quel mix di erotica sadomasochistica ed ascetica del
dolore che si invera nelle eterne Tre Stigmate di Palmer Endrich. Carne e
sangue si legano inestricabilmente in ogni combinatoria resa possibile
dall’high tech, fino a fondersi e confondersi, fino al finale, angoscioso e
spiazzante al grado giusto.





Un’opera consigliabile, credo, soprattutto per i cultori di
quel cyberpunk perduto, per coltivare serenamente la nostalgia nell’attesa che
qualche figlio bastardo di earth drones e google glasses, di Second Life e di
The Division, ci dia finalmente l’inferno dantesco prossimo venturo che stiamo
da sempre aspettando.