Lo Chiamavano Jeeg Robot





LORENZO BARBERIS.



Spoiler alert as usual: vedere prima il film.



Visto ieri il recente film di Gabriele Mainetti, "Lo chiamavano Jeeg Robot" (2016).

Mainetti, al suo esordio alla regia di un lungometraggio, realizza un interessante approccio al cinema supereroico italiano, più convincente del poco incisivo "Il ragazzo invisibile" (2014) del più blasonato Salvatores.



La scelta è quasi quella di un supereroe "neorealista", un "ladro di biciclette" (in verità, di Rolex) che si tramuta grazie a dei bidoni tossici radioattivi depositati nel Tevere. Da un lato quindi si guarda ai cartoni giapponesi di Go Nagai (l'anime citato è del 1975, un anno prima della data di nascita del regista, che è un mio più talentuoso coetaneo).



Dall'altra, giustamente, il tipo di incidente guarda a Daredevil, con la sua Hell's Kitchen cattolica ed irlandese - e ammorbata dalla droga, che gli allontana anche una storica fidanzata - il più vicino, tra i super classici, a questo tipo di ambientazione. Non a caso il supercattivo, nell'estorcere al "buono" i suoi poteri, farà le ipotesi di altri casi celebri: quasi a voler dire che quel tipo di origine non è, invece, casuale.



Mainetti, anche grazie alla bravura degli attori, non esita poi a spingere sull'acceleratore nella rappresentazione del degrado sociale, ed evita così di usarlo come una pura cornice. C'è quasi a volte un'estetica del degrado, che si ferma appena sulla soglia dal diventare troppo compiaciuta.



Ad esempio, nella scena topica della "rivelazione dei poteri", il protagonista è reclutato da uno scagnozzo del mediocre boss locale (l'antagonista) per ripulire la merda dagli ovuli di cocaina ingeriti da un corriere nero.



In questo modo, il film è al contempo molto fedele alla drammaturgia supereroica, ma la innova anche immergendola nel caustico realismo italiano, che quando è al suo meglio verista è un acido di una potenza, in grado di far fronte a simili riscritture americane, con una sua voce propria.









Anche la scontrosa collaborazione tra mafia romana e camorra è resa bene; ben caratterizzato l'antagonista, che vive nella luce riflessa di una remota partecipazione a Buona Domenica, anche se "troppo queer coded" per certa critica "di sinistra" (vedi qui, anche per successive considerazioni). Però innegabilmente il personaggio funziona, non è gratuito nella sua rappresentazione.









Così come equilibrata è la "deformazione della formazione" supereroica: se il piccoloborghese nerd Spiderman, come trasgressione all'etica protestante della responsabilità, andava a fare il wrestling per soldi, qui il nostro piccolo delinquentello da Roma da "Accattone" divelle un Bancomat, diventando un eroe del sottobosco borgataro (fino all'eternamento in graffiti alla Bansky-o-mat).









In effetti, invece, il rapporto con Alessia, è piuttosto disturbante e, per certi versi, non ben risolto. Da un lato, il suo essere "a woman in the refrigerator" fa parte delle convenzioni fumettistiche (e prima di altri generi popolari, la "damsell in distress" non sempre salvata); però, il fatto che il "supereroe" si aggiunga al padre e agli assistenti sociali nelle molestie dovrebbe precludergli una autentica dimensione "eroica" che nel finale (di nuovo, molto topico, lo sguardo del supereroe che domina la città) non gli è invece negata.









Molto ambigua anche la stessa risoluzione del conflitto: il protagonista compra il vestito rosa "da principessa" ad Alessia e quindi si sente in diritto di portare avanti le avances, nonostante sappia delle molestie e delle sue crisi di panico ad esse legate. Il palloncino rosa è simbolo della rottura del rapporto tra i due, ma ritorna nella bimba intrappolata nella macchina (un altro palloncino, ovviamente) a indicare quasi che con quel salvataggio il protagonista "si è redento" ed è ora un vero eroe (da lì in poi, in modo meno interessante, il personaggio è letto così).



Intendiamoci: la rappresentazione del degrado sociale ed umano è legittima; convince meno la troppo facile "redenzione". Il regista cita il modello di Luc Besson in "Leon" (1994), che però corrisponde a una differente situazione psicologica ma, anche, una differente estetica filmica (Besson aderisce volutamente all'estetica del "noir ingenuo", con i suoi criminali "spietati e dal cuore d'oro" come il killer Leon; qui siamo in un ambito che, da molti dettagli, si candida come più "verista".







In parallelo, il tema della "strategia della tensione" è molto interessante, forse ancor di più, per me, di quello degli orrori da borgata (non manca nemmeno il tizio sbranato dai cani, alla Watchmen). Forse è stato lasciato in sospeso (chi c'è dietro il clan della camorrista Nunzia?) per un possibile sequel.







Stanti le mie perplessità di cui ho detto, il film è complessivamente molto interessante in un panorama italiano che di solito interpreta il film supereroico in malintesa chiave infantile. E, per estensione dal genere al medium, può fare bene al "fumettistico italiano" in generale (non a caso, da Recchioni ad altri, molti fumettisti hanno collaborato in varia misura con locandine e altri omaggi).