Stefano Casarino - Eidola





LORENZO BARBERIS




La sera di sabato 3 dicembre, presso il Centro Studi
Monregalesi, si è tenuta la presentazione dell’ultimo libro degli Spigolatori:
Eidola di Stefano Casarino, da oltre vent’anni storico docente di lettere del
Liceo monregalese, che ha rivelato per la prima volta in modo così ufficiale e
pubblico la sua finora inedita voce poetica.





A introdurre l’opera si sono alternati vari esponenti della cultura monregalese: Teresio Sordo, Yvonne Fracassetti, Claudio Bo, Giuliana Bagnasco
(che firma l’introduzione) e Gabriella Mongardi (cui spetta invece la
prefazione). Quarto libro della collana Petali DiVersi, la copertina è invece
di Teresita Terreno, pregiata cultrice dell’incisione (vedi foto all'inizio del post).





La serata ha visto un accompagnamento musicale eseguito da
Marzia Danna, Maria Rosa Cardone, Giacomo Bottioli: una consuetudine per gli
Spigolatori, ma che è risultato particolarmente azzeccato per l’opera di
Casarino, che è un convinto promotore di un sacrosanto culto della musica
classica, anche nelle aule scolastiche “sorde e grigie” all’educazione
musicale.





Margutte, che come diremo è citato a suo modo nella raccolta, ha recensito con due interventi questa pubblicazione, con la lettura tematica della Fracassetti (qui) e la bella prefazione della Mongardi (qui). Ma volevo aggiungere anche un mio commento a questo opera, che mi ha molto colpito per la profondità e interconnessione dei temi (conto di tornarci in ulteriori letture, per la sua densità).





Giuliana Bagnasco giustamente ha parlato di poeta-professore per
Casarino: le due voci, quelle del poeta e quella del professore, si sommano
davvero nell’autore. Si sommano, però, senza sovrapporsi: nell’esposizione appassionata
del Classico in ogni sua forma, il Casarino-professore è alfiere di una analisi
razionale, di una passione mai scissa dal rigore. Il Casarino-poeta, invece,
non è “professore” nel senso di “erudito”, ricercatamente prezioso nello
sfoggio di gratuita ostentazione di cultura. Lo è, “professore”, nel porgere
tramite la parola lirica il mito classico con chiarezza e semplicità (ben altro
della banalità, ovviamente): ma è una chiarezza e precisione espositiva “altra”
da quella del docente.







Come coglie con precisione la Mongardi, molto è contenuto
già in quel potente Eidola: fantasmi, immagini, icone, idoli. Fantasmi e
immagini sono una precisa traduzione dal greco: e se il rimando all’Immagine
evoca gli impossibilia dell’Ut
Pictura Poesis, Fantasmi ha un senso pessimistico che trova riscontro in alcuni
risvolti dell’opera, significativamente verso il finale, che chiude in una nota
di disillusione che non dev’essere riuscita facile all’autore, uomo
dell’ottimismo della volontà sopra il pessimismo della ragione.





Ma anche Idoli e Icone in due traslitterazioni più libere:
nel primo vi è una traccia del paradossale “Casarino filosofo”, una traccia
della critica implicita nel concetto di Fantasmi.  L’Idolo è da venerare sacralmente, ma la
venerazione verso il Classico di Casarino è razionale, e quindi il concetto
appare problematizzato, con un'eco forse degli Idola specus di Bacone. I classici tramutati in Idoli perdono parte
della loro forza, il lavoro dell’umanista, a tutti i livelli, è interrogarli
con autenticità dal moderno, e per il moderno. Meglio farne Icone, nuovamente
“immagini”, ma con una positiva sacralità: la sacralità dell’evo moderno,
quella cristiana, ma anche in certo senso quello della modernità informatica
(che non è priva di una sua propria sacralità: la nascita delle Icone
informatiche ha il suo peccato originale sempre in una Apple, una mela).










Quaranta “Eidola”, dunque, come le quaranta carte del mazzo
da gioco moderno: sono del resto i quaranta “arcani minori” rimasti privi degli
Arcani Maggiori dei Tarocchi, quelli più plasticamente esoterici, da cui deriva
anche la figurazione del nostro Margutte (vedi qui un mio saggio introduttivo alla rivista).





Nella dottrina cartomantica, gli
Arcani Minori sono portatori di un loro mistero niente affatto “minore” in
verità, ma più nascosto: e niente affatto minori sono quelli scelti da
Casarino, che in questa sua “scala quaranta” dispone come un prestigiatore,
ordinatamente, quaranta potenti figure della cultura e del mito.















C’è molto di un altro ligure, molto illustre, Italo Calvino, che nel Castello dei
Destini Incrociati
, agli albori del postmoderno italiano, componeva narrazioni
combinatorie a partire da un mazzo tarologico. Ma c’è Calvino in rovesciamento,
in quanto Casarino allinea queste sue carte del mito, non le mescola ma le
dispone in un fragile ma potente castello di carte, che vuole suggerire una
possibile via d’uscita dal Labirinto, per Calvino simbolo ineludibile del
Contemporaneo.





Appare curioso (e magari, junghianamente, significativo) che
la prima analisi mistica del mazzo dei Tarocchi sia nato all’Università di Mondovì,
ad opera di Francesco Piscina, che nel 1565 dedicava a questo tema la sua tesi
di laurea (qui la trascrizione inglese dell'opera).



Anche Piscina leggeva i 22 Arcani Maggiori come una precisa scala simbolica,
da meditare in una sequenza che portava dal Matto iniziale fino al Giudizio
finale, con una mistica nettamente cristiana su cui si modelleranno, nel
futuro, quelle più “laiche” dell’ermetismo, come ad esempio quella, recente, di Jodorowsky.




Anche quella di Casarino è una Scala, una scala di quaranta arcani minori, dove ogni elemento si
collega e conduce all’altro, e tutti creano un testo a suo modo coeso, un
“poemetto” si è detto nella presentazione; non fosse che Casarino comunque
accoglie anche la necessaria natura frammentaria e intertestuale della modernità.





“Il mito ordina l’ammasso di storie che la logica deride”,
precisa Casarino come incipit all’opera. Risuona qualcosa del pascaliano “Il cuore
ha ragioni che la ragione non conosce”, non tanto nel senso della fede, ma di
una adesione pre-logica al mito stesso: “la strana storia che si muta in mito
modifica il nostro fatuo presente”. Fatua la modernità che non ha bisogno dei
suoi mitici eroi (o almeno lo crede).









Gli Eidola si aprono con Arianna, colei che tiene il filo in
grado di sbrogliare il labirinto, che è chiaramente, fin dal primo verso,
quello (anche) della modernità. Il rimando ad Arianna è iniziale forse anche
poiché primordiale, proiezione com’è di divinità ctonie cretesi, primeve dee
dei serpenti, divino femminile poi offuscato dal predominio del patriarcato.




Segue, secondo, Teseo, l’Uomo che nel Labirinto si addentra,
guidato dalla Donna, Arianna come eterno femminino. Teseo per i cristiani
figura di Cristo (anche, per allusioni, in Dante), colui che scende nel
Labirinto Infero per guidare il suo popolo alla salvezza dal dominio del mostro
cornuto.




E quindi Teseo, “primo dei classici” (il mito d’argomento
cretese predata le vicende dell’Iliade) è anche Yeshua, con fedeltà
all’ebraico, e senza la specificazione messianica. Allo stesso modo, Yeshua è
salvifico e primigenio, ma (nel testo poetico) c’è la morte, non c’è la
resurrezione. Yahùdah, similmente, non è colto come traditore, ma come vittima
a sua volta. C’è molto del Borges di Ficciones qui, come in più punti
riecheggia (ben assimilato e fatto proprio dall’autore) il Borges poetico: ma
anche, direttamente, le fonti di Borges, certa Gnosi, certi vangeli apocrifi
(da quello di Giuda in poi, appunti), che letti con occhi moderni e senza
cercarvi facili sensazionalismi occultistici possono dire molto all’uomo
moderno del problema della complessità della fede, del rapporto con Dio, del
male.










Crono è un salto indietro crono-logicamente, ma il dio del
Tempo sfugge alle sue stesse regole, “un po’ prima, un po’ dopo, non ha alcuna
/ importanza per me che resto”. Non metterlo all’esordio è anche una labile
speranza che “vi sia qualcosa prima” di Cronos e del suo divorante potere.


Eos e Silene, alba e tramonto, gli sono ancelle, contabili
dello scorrere della clessidra; Sileno e Titone ne sono, in modi diversi,
schiavi. In Sileno vi è molto della disperata allegrezza di Lorenzo de Medici
nella Canzona di Bacco; Titone è l’impossibilità di una fuga magica dal dominio
del tempo.




Prometeo ed Eracle sono eroi; l’eroismo morale di
Prometeo, quello muscolare e quindi fallace (già nel mito) di Ercole, che
conduce all’arciere Filottete, simbolo della fragilità della carne, soggetta al
regno del declino e a quello curativo di Chirone.



Ma Orfeo è il vero eroe, l’eroe-cantore, come Lino, anch’egli
sventurato.




Aracne, posta in esergo a Mnemosine e alle Muse, si
ricollega all'Arianna iniziale, che ci dice che la Dea è signora dei fili,
della tessitura, del Testo.












E dopo Arianna, Mnemosine e le Muse (“tre donne intorno al
cor mi son venute”?), dopo Orfeo e Lino, a compierne la triade, abbiamo
l’evocazione di Omero, primo personaggio a uscire dal Mito in senso stretto, ma
in verità al mito appartenente e col mito connesso in modo inscindibile. Il
cantore cieco, il cui nome, ricorda Casarino nella presentazione, è un plurale,
è il simbolo stesso della poesia e della cultura occidentale.




Quindi i grandi da lui cantati: Elena ed Ecuba, la
femminilità giovane e quella anziana, Ettore e Achille, la diade della sfida
che regge l’Iliade; Odisseo, che regge entrambi i suoi poemi. E i profeti delle
due parti, Cassandra e Tiresia, ambo segnati dalla maledizione della visione.










Poi, i personaggi del grande Teatro greco: iniziando da
Edipo, ovviamente, fondante per Aristotele e per Freud (non solo del classico,
ma anche della nostra attuale modernità) e poi con grande attenzione
l’Antigone, con anche Creonte e Eomone, e poi Ifigenia, e Alcesti (in una
triade femminile che assume su di sé la tragedia della polis).




La classicità di Casarino è quella greca: Roma è sussunta,
soprattutto da figure simbolo del compito di una conservazione, spicca per le
assenze, nessun Romolo, nessun Cesare (tranne un caso), benché figure che si
sarebbe potuto far assumere a un ruolo di Eidola.




Vi è una Vestale, unica figura anonima del “poema”, con una
potente valenza simbolica: “bada. Il fuoco non si deve mai spegnere”. La
Vestale sussume con grande chiarezza il ruolo di Roma, conservare ciò che ha
ereditato dai greci, e il suo compito si estende a noi. Riecheggia in qualcosa
il Levi di Se questo è un uomo: e anche la sua maledizione verso chi non
ricorda non si limita all’orrore della Shoah, ma si estende alle radici
classiche, all’Odisseo di Omero e di Dante appunto, che lui cerca con fatica di
insegnare al Picolo francese, al fondo dell’infernale totalitarismo perfetto
del Lager.




Pirrone è di nuovo un greco: il caposcuola dello
scetticismo, segno di una classicità fondante del postmoderno anche nel dubbio
metodico. La modernità non ha inventato nulla, sembra ricordare anche qui
Casarino, il pensiero debole è già parte del pensiero complessivamente forte
degli antichi, nelle sue diramazioni laterali. Un altro approccio al classico,
che Casarino riconosce, ma con meno sentimento rispetto al ruolo di sacro
rispetto della Vestale.




Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, è l’unico Cesare che
appare, all’apice di quell’età del’oro di Roma, nell’equilibrio precario tra la
forza dell’Imperator e il bilanciamento del Senato. Cultore dei classici, Marco
Aurelio è ultimo prima del declino: con Commodo si apre un’età di crisi, ove
sale tra l’altro al trono, subito dopo, anche Pertinace, l’imperatore
grammatico, di Alba,
prima di esser spazzato via da una sequela di imperatori
militari e barbari, da Massimino Trace in poi.










La cesura (stavo per scrivere: la ceNsura) operata sul
medioevo è significativa e nettissima. Solo una figura Casarino fa assurgere,
da qui, al mito. Ed è il nostro Margutte: omaggio anche, in parte, a questa
piccola rivista monregalese, di cui Casarino è preziosissimo collaboratore. Ma
non solo: Casarino non forza certo il suo percorso per un banale citazionismo. Questa la lirica:



Le cose vanno lasciate a metà.

Soltanto ciò che è imperfetto può esistere,

solo quello che non è terminato

non muore. L’incompiutezza è l’essenza

dell’unica possibile saggezza.

Ridi dei sistemi e dei dogmi,

delle ideologie che hanno ipotecato

il futuro; sbeffeggia i folli credi

che impongono stragi e attentati.



Una grande risata caccerà

il male che devasta le coscienze.




Margutte sussume così in sé, tutto quanto va dal Medioevo al
Rinascimento. Personaggio di Luigi Pulci, il letterato compagno di Lorenzo de’
Medici nell’età giovanile, prima di assumere la difficilissima guida della
Signoria, il mezzo-gigante è lo scudiero del gigante Morgante, a sua volta
scudiero di Orlando, paladino di Carlo Magno, campione del Sacro Romano Impero
debolmente rinato nell’800 d.C.




Lo scetticismo di Pirrone, il dubbio di Marco Aurelio
divengono in Margutte, pienamente, risata postmoderna, risata “dei sistemi e
dei dogmi”, caotica eppure liberatoria, a suo modo salvifica. Mentre torna una
cupezza medioevale, apocalittica, Margutte rivela la forza del riso. In fondo,
la lezione dell’Eco del Nome della Rosa, quella parte che Casarino sembra
accettare, anche se non come conclusiva, ma solo pars destruens del Riso
propedeutica alla preponderante – in Casarino – part costruens del Mito.




Non basta demolire i falsi miti, occorre edificare quello
vero, e se Margutte è il Riso, va anche detto che per troppo Riso giunge alla
sua morte poco gloriosa (ma perfettamente coerente al personaggio).


A Margutte si giustappone, nella cerchia medicea, Pico della
Mirandola
, simbolo di quel rinascita della cultura iniziatica classica,
connessa alla traduzione del Corpus Hermeticum di Marsilio Ficino (Pulci era
anche il cultore di una sapienza iniziatica legata all’alchimia medioevale).
Ridotto ad archetipo, Pico sarebbe la memoria prodigiosa, Casarino preferisce
farne il massimo umanista, l’autore de De
Hominis Dignitate
.




Se Pico supera Margutte, Faust è la tentazione superomistica
insita nel Rinascimento, da cui Casarino ci mette in guardia: nel dominio di
Cronos che segna la sequela delle sue Figure, più che la sete di conoscenza
Faust soprattutto alla disperazione per il tempo che passa, che fonda il patto
faustiano con Mefistofele. Faust tradisce il messaggio classico che dovrebbe
conoscere, la sete di conoscenza non giustifica patti diabolici, vita uti scias longa est.










Dopo questa triade del Rinascimento, Margutte-Pico-Faust,
una triade dei Moderni, sconsolata.


Si apre con Totò, un riferimento al Totò Merumeni di
Gozzano, di cui Casarino è attento cultore. Casarino cita la lirica più
classica del grande poeta piemontese (nel citarlo, il ligure Casarino paga
anche un tributo ai vent’anni monregalesi, forse, il riconoscimento che ha un
debito con la Montagna oltre che col Mare, ormai). Totò Merumeni deriva infatti
da Heautontimorumenos, Il punitore di sé stesso, commedia di Terenzio
(commedia, ma di una comicità ben più sofferta e problematica di quella
fantastica ma disinibita di Plauto). Commedia, tra l’altro, latina, ma dal
titolo greco: la Grecia ritorna sempre. Il calco e il distacco dal modello
crepuscolare è netto: “abbandona / le inutili cose di ottimo gusto”, una sfida
all’intellettuale nell’essere presente nel Mondo, e non ad astrarsene con rifiuto
un po’ blasé (notiamo, en passant, che se Gozzano era già cultore del kitsch,
“buone cose di pessimo gusto”, quelle che Casarino esorta ad abbandonare sono
“ottime cose” ma “inutili”, ovvero i modelli classici considerati come turris
eburnea, non calati nel mondo).




Mi si consenta una nota un po’ dissacrante ma credo esatta:
nell’evocare Merumeni solo come Totò, Casarino gli giustappone forse la
notissima maschera del principe Antonio De Curtis, di cui lo so grande
estimatore. Il Totò del teatro cabarettistico e del cinema, infatti, solo
all’apparenza proveniente dalla comicità bassa (che sapeva sfruttare
all’occorrenza, come anche in Dante quando serve il diavolo fa trombetta col
culo), sa che Pulcinella deriva dalla tradizione classica, anche pre-romana
(Nea-Polis) e tramite questa consapevolezza – senza un grammo d’erudizione, in
scena – può rinnovare i fasti della sua Maschera anche nell’età
cinematografica. In un certo senso, Totò è sia il destinatario Merumeni, sia
l’esecutore De Curtis dell’esortazione all’azione sulla scena del mondo. In
fondo Totò era uomo di mondo, appunto, avendo fatto il militare a Cuneo e (in altri film) il seminario a Mondovì.




Totò è l'unica figura antropomorfa che appare dei moderni, e ancora una volta è il riso, il sorriso colto di Gozzano e il riso coltissimo di De Curtis. Epigoni è di più netto pessimismo: certo si parte dal mito
greco, ancora una volta, ma non si parla dei discendenti dei Sette contro Tebe,
si parla evidentemente di noi, con una precisione che è un confronto con un
modello verso cui Casarino nutre pirroniano scetticismo. L’apertura della
lirica, “Eco della parola che fortifica”, infatti, non può non cogliersi anche
come presa di distacco da Umberto Eco, l’alfiere più autorevole di un certo
pensiero debole, riconosciuto come il più grande dei coevi (anche in omaggio,
forse, alla recente scomparsa) ma segno anche del nostro declino, in grado di
avere come massimo campione solo la voce dell’ironia disincantata.





Esodo, la conclusione, torna al pensiero ebraico (e quindi
anche questa diade, Gesù-Giuda, diviene una triade): “partenza”,
etimologicamente, come chiarisce lo stesso autore nelle Note (“quello che mi
riesce meglio”, chiosa sobriamente), e quindi anche congedo dal lettore, e
anche ovviamente i grandi movimenti di popoli cui assistiamo ad oggi, cui
Casarino guarda con umana simpatia (nel senso alto e non banalizzato del
termine: “umanistica”, l’homo sum humani
nihil a me alienum puto
di 
Terenzio), ma senza ingenui e facili ottimismi. Non migrantes ma cum-migrantes,
viene da dire, i nuovi europei come compagni di viaggio. E però le “disperate
fughe” hanno “incerti approdi”, e sembra a rischio anche “una certa idea di
Europa” cui Casarino (anche su queste nostre pagine di Margutte) è legato: “ci
spostiamo ed invadiamo ogni possibile / spazio, incuranti di muri e padroni”.
Una migrazione inarrestabile, che forse porterà anche il frutto di un
rinnovamento di una civiltà occidentale ormai stanca: ma non senza un prezzo,
come ci insegna la storia, sotto il segno divoratore di Crono.



Insomma, un testo raffinato e labirintico, dove tutti gli Eidola rimandano per speculum et in aenigmate agli altri. E allora anche questo finale così cupo non è così definitivo, forse, ma è l'invito a tuffarci di nuovo al labirinto del testo e del mondo, per trovare, tramite la Parola, un modo di dargli un senso.