Dylan Dog Maxi n.29





LORENZO BARBERIS



Due appunti, come al solito, sul Maxi Dylan Dog attualmente in edicola dal 24 febbraio 2017 (il primo Maxi a riportare la data esatta di uscita, come già il Color e il regolare). Possibili alcuni spoiler, ovviamente, anche se come sempre mi divertirò ad annotare più che altro alcuni dettagli minori. Più che altro, trovo che abbia poco senso leggere questi appunti prima del fumetto, come per ogni recensione. In ogni caso, siete avvisati.



Primo Old Boy, dunque, col nuovo copertinista, dato che Gigi Cavenago, arrivato con la curatela Recchioni, è passato sulla regolare al posto dello storico copertinista Stano. La scelta è ricaduta su Andrea Accardi, che con Recchioni ha realizzato, su Le Storie, il ciclo relativo ai samurai, Chanbara, come spiegato anche nell'editoriale.









La scelta dei colori piatti e delle retinature "a vista" viene prudentemente ricondotta allo Sclavi appassionato di pop art; e in effetti Roy Lichtenstein fu da lui omaggiato, assieme al disegnatore Micheluzzi, in un capolavoro come Roy Mann.



L'immagine, comunque, riprende il tema del teatro di figura della terza storia, di Marzano (non la seconda storia, l'ergastolana, che sulla carta è il piatto forte di questo maxi, almeno per gli appassionati di lunga data): inoltre, in Marzano troviamo burattini, nella cover sono marionette. La cosa si spiega col tema "carnevalesco" dell'albo, che va a riecheggiare quello di Cronodramma sulla regolare, legato al ritorno del diabolico Arlecchino.



Il sorriso dell'assassino









La prima storia è sceneggiata dal vecchio curatore Giovanni Gualdoni, per i disegni dello studio Piccatto. L'esordio è interessante, la famiglia disfunzionale d'élite (5-15) è resa col giusto corrosivo sarcasmo.



Poi inizia l'indagine, in modo abbastanza prevedibile, intervallata dalla seconda sequenza splatter, in flashback (23-29, col nuovo stile: ovvero solo la prima vignetta e l'ultima cominciano e finiscono smussate. Personalmente, lo preferisco). Protagonista Emma Jones, ovvero la Britget Jones filmica in un contesto orrorifico, e splatter a buoni livelli.



Il flashback della vita di Abraham, il Bartleby di Melville in versione barbone (42-45) è invece con sfondo nero, secondo un espediente che ha preso piede nella nuova gestione (un flashback come quello prima, ma un flashback "remoto", da cui l'espediente, che graficamente è ancora più interessante).







A metà albo (p.50), come di prammatica, ci vengono dati indizi per comprendere la paradossale conclusione dell'albo, citando anche un albo storico come il 105, quello probabilmente meno animalista della serie.



La conclusione è un divertissment gualdoniano, che dopo aver dato dello splatter non malvagio nella prima metà, chiude in modo volutamente indifferente, anche rispetto alle motivazioni dell'anomalo serial killer (vedi p. 92-93, dove quest'indifferenza alla spiegazione è rimarcata, paradossalmente, nel classico "spiegone finale"). L'unico elemento comune è il fatto di raccogliere sorrisi particolari: il sorriso dell'ipocrisia dei due genitori, il sorriso forzato della pseudo-Britney Jones, il sorriso di un uomo che non ha mai sorriso.







Tra le note a margine, ritorna il Congresso dei Sosia cui ogni tanto va Groucho  (34), e subito dopo (35) si parla del Dylan del 1686, con una piccola ret-con addirittura del N.1, tra le righe: Dylan e Groucho sanno dell'esistenza di un Dylan Dog del 1686, e Groucho - sapendo qualcosa? - sostiene l'identità tra i due. La riflessione metaletteraria sulla funzione del cinema horror (36-38) si accompagna a una mezza citazione del dentista sadico di Little Shop Of Horror.



Niente citazione, invece, per la Berenice di Poe, modello di ogni ossessione dentaria. Non male neanche il film Denti del 2007 quanto ad ossessioni dentali, ma non si può citare così facilmente su un Dylan Dog.







Il gioco del dolore



La seconda storia è il pezzo forte dell'albo, almeno per l'appassionato di vecchio corso: una delle ergastolane, le "storie perdute" sceneggiate da Chiaverotti e disegnata, in questo caso, da Pennacchioli. Non ha la cover, ma comunque inizia con un circo che può richiamare i pagliacci della copertina e della terza storia.









Anche qui si comincia con una famiglia dall'apparenza borghese ad alto tasso disfunzionale. Ci sono dei rimaneggiamenti (si parla di stalking) e la storia è in effetti piuttosto scabrosa; al discorso sulla violenza si aggiunge un rituale occultistico inquietante nella sua essenzialità (poco trovarobato esoterico, abbastanza violenza autentica).



Bella e molto classica la scena nella galleria d'arte (138-145);  il rovesciamento finale aggiunge ulteriori problemi a quelli di una storia già di per sé molto delicata. Per certi versi potrebbe esserci un parallelo con la storia di Recchioni sull'ultimo Color Fest. Se la cosa fosse voluta, sarebbe interessante, imbastendo tra le righe un triplice multiverso, non solo tra Maxi e regolare, ma anche col Color.



Il Burattinaio









La terza storia, di Giancarlo Marzano per i disegni di Fernando Caretta, è quella della cover. Fin dalla prima tavola si sottolinea quella identità tra la vignetta del fumetto e la quinta teatrale del teatro dei burattini; con una classica mise en abime, il teatrino della prima tavola è sia quello al centro della vicenda, sia quello in cui viene rappresentata tutta la storia che andiamo leggendo. La cosa verrà confermata, specularmente, dall'ultima tavola del fumetto, che ritorna al punto da cui siamo partiti.



Un gioco metateatrale tipico delle marionette che, non a caso, esplodono come fenomeno europeo nel Seicento barocco (avendoci dedicato la mia tesi di laurea in Storia del teatro, è un argomento che riveste per me un particolare interesse).



Lo sviluppo metaletterario è confermato dall'aspetto decisamente cartoonistico (e quindi fumettistico) che hanno le marionette della storia, a partire dal diabolico dottor Nebula. Anche i prototipi infantili del teatrino diabolico sembrano fumetti stilizzati fino allo smile, come gli attuali fumetti-meme di autori come Sio e affini.



Il sogno ricorsivo (un grande classico) si chiude in uno studio di dentista, con un rimando, voluto o no, alla prima storia; in 239 si parla di stalking come nella seconda (in questo modo, le tre storie sono connesse circolarmente). La banale crudeltà del pubblico potrebbe essere quella di certo gentismo deteriore da social network (e di social e tag si parla prima nell'albo): lo spettacolo è crudele quanto il pubblico chiede che sia, sembra dirci Marzano, tra le righe.









Il gioco della meta-narrazione comunque pare confermato anche da un accenno di metafumetto, a p.237 (in 231, ironia interna sul cellulare). Marzano mostra di essere ben documentato per questa storia: parla di teatro di figura e mette in scena Punch e Judy, che costituiscono un ulteriore elemento di comunanza tra fumetto e burattini. Il Punch, infatti, dal 1842, è il più autorevole giornale di satira inglese, ispirato alla celebre figura (derivata dal Pulcinella napoletano, corrottosi per influsso del punch, pugno) e dove appaiono i primi cartoon chiamati in questo modo (dal 1843, per la precisione: deriva dal "cartone" su cui si fa la bozza di un dipinto, che qui diviene l'opera stessa).







Il finale svela l'influsso dell'Old Nick (nome inglese del diavolo, dal nostro Nick Machiavelli...) su Neembus/Nebula, ed anch'esso è abbastanza metaletterario, riprendendo non so con quanta intenzione il tema del patto faustiano, la cui storia arriva da Marlowe a Goethe proprio tramite il teatro marionettistico.









La conclusione, da p.287 in poi, mescola abilmente il piano della realtà e della rappresentazione interna, fino alla chiusura circolare dell'ultima pagina. Il gioco sulle due dimensioni narrative non è nuovo in Marzano (vedi il n.306, sulla regolare) e certo il gioco multi-dimensionale (pur più sfumato) è un altro punto che lo accomuna alla storia di Ambrosini sulla regolare, se vogliamo seguire l'idea di un ulteriore gioco di rispondenze tra Maxi e regolare (a volte più evidente, a volte più smussato).







Il tema delle "marionette maledette" è del resto molto caro all'horror, e a Dylan in particolare. Le troviamo per la prima volta al numero 11, Diabolo il grande (1987), nel primo anno di vita del personaggio, numero di recente oggetto di una riscrittura breve in un Color Fest.







Alle marionette è dedicata poi una delle più iconiche storie di Dylan Dog come Sette Anime Dannate, e probabilmente anche il grande successo di quel numero, nel 1992, portò a una storia con quel titolo per il terzo Gigante, nel 1994.











Infine, non si può dimenticare che il Grand Guignol, teatro dell'orrore ottocentesco antesignano nobile dello splatter (e che, prima del termine splatter, era divenuto l'orrore sanguinolento per antonomasia) cui Dylan dedica il numero 31, prende il suo nome da una marionetta ricorrente nello spettacolo, Guignol, operaio tessile lionese che si batte contro i soprusi dei padroni (horror e utopia sociale, un mix che Dylan conosce bene).











Proprio volendo, in certo qual modo una storia di mefistofelici "pupazzi" ritorna anche nel 366, nuovo diabolico numero della regolare. Ma di questo avremo modo di parlare a breve.