Dylan Dog #369 - Graphic Horror Novel





LORENZO BARBERIS



Solita premessa: consiglio di leggere prima l'albo, perché inevitabilmente parlandone potranno esserci degli spoiler. 



Uscito nelle edicole, il 30 maggio 2017, il nuovo Dylan Dog 369, "Graphic Horror Novel", che vede il ritorno ai testi di Ratigher, dopo il suo esordio nel numero 351 di cui avevo parlato qui. Una storia che fin dal titolo si annuncia una riflessione meta-letteraria sul personaggio, un registro ultimamente spesso presente sulla testata, con il rilancio, ma mai come qui centrale.



La cosa si riflette anche sulla cover di Gigi Cavenago: Dylan Dog non è presente, se non come immagine, come icona, e addirittura anche sui poster che decorano lo studio del fumettista il suo volto appare sempre in ombra.



Se vogliamo, perfino la numerazione ci dice qualcosa di questo albo: siamo al 369, trecento numeri dopo "Caccia alle streghe", il numero 69 della serie, che fu la riflessione metaletteraria di Sclavi sulla fine della prima età del personaggio, quella segnata dallo splatter anni '80. Lo splatter infatti venne ridimensionato dopo una serie di battaglie censorie, pur vinte dalla Bonelli sul piano puramente materiale.



Lo sceneggiatore dell'albo non è certo scelto a caso.

Ratigher è uno dei nuovi nomi più significativi del fumetto non-seriale (di lui avevo recensito qui Le ragazzine, disponibile gratuitamente online). Ora (vedi qui) è anche il nuovo direttore di Coconino Press, la storica casa editrice diretta in precedenza da Igort (passato a un nuovo progetto con Oblomov).









Fin dal titolo, al tema dell'orrore si aggiunge il tema dell'autorialità: il (la?) Graphic Novel, la grande questione nominalistica degli ultimi vent'anni. Il termine nasce nel 1978 in ambito americano, con "A contract with God" di Will Eisner, ma qui da noi, in Italia, si afferma in seguito, con una certa esterofilia, sostituendo la precedente diatriba fumetto popolare vs "d'autore". Recchioni curatore (ma implicitamente coinvolto - e citato - in quest'albo "programmatico") la ritiene in prefazione un "modo stupido" di nominare un fumetto, dichiarando altrove di prediligere una più neutra opposizione "seriale / non seriale".



In sé, "romanzo a fumetti" potrebbe essere neutro, considerando il fumetto il medium e "romanzo" la forma assunta. Certo c'è la sudditanza psicologica implicita verso un differente medium "più prestigioso", la letteratura tradizionale, e ovviamente un giudizio di valore implicito positivo verso il graphic novel (fumetti "come romanzi") che esclude arbitrariamente i seriali (ma molti romanzi ottocenteschi sono "seriali", sia come puntate di una continuity - i feuilletton - sia come serie ricorsiva di un personaggio - Holmes, ad esempio).



Non a caso, la stessa Bonelli ha spesso definito, con sottile polemica, "romanzi a fumetti" i suoi albi (che sfiorano le cento pagine considerate spesso in letteratura il confine arbitrario tra racconto e romanzo, meglio tra racconto lungo e romanzo breve), al di là di una collana specifica che prese questo nome.  In questo senso, Dylan Dog si potrebbe quasi dire IL "Graphic Horror Novel" per eccellenza: ma qui questa definizione è evidentemente problematica, e rifiutata all'interno dell'albo.









Ma torniamo alla storia.

Anche scelta dei disegnatori segue l'ambivalenza prescelta: da un lato Paolo Bacilieri, il più "autoriale" dei "popolari" bonelliani. Dall'altra, Giuseppe Montanari ed Ernesto Grassani (significativamente solo con la sigla "Montanari e Grassani"), che rappresentano la tradizione dylaniata, gli autori di tanti albi "ordinari" della prima età del personaggio, dal terzo numero in poi.



La storia si apre con una splash page (marginata: e la cosa sarà molto rilevante, dato lo sviluppo finale) che ci mostra la veduta dall'altra di un cesso da autogrill. "Pollution", "Life is Hell" "If you dream you drive" e disegnetti, appunto, da cesso d'autogrill, cui il protagonista aggiungerà i suoi.



Le tavole scardinate tipiche di Bacilieri ci mostrano l'ossessione del protagonista. L'inventario delle proprietà (p.11) è rivelatorio; non so se il logo del biglietto da visita (un uccello in volo?) abbia qualche significato specifico, ma comunque il testo ce ne richiama l'attenzione.



Il brandello di disegno con sopra "Fine" contrasta ovviamente con "Fine dell'episodio" che troviamo, anche questa volta, a p.98. Il protagonista inizia a scrivere sulle pareti del cesso da motel. Insomma, la situazione è "da graphic novel", ma i disegni del fumetto sono anche avvicinati (provocatoriamente) ai peggiori graffiti urbani. Scopriamo anche che il protagonista ha quarant'anni (12.i); età in cui il suo alter ego David Foster Wallace (1962-2008) sarebbe al vertice del successo, iniziando la sua carriera di docente di scrittura creativa al college, sulla scorta del successo di Infinite Jest (1996).









La storia disegnata dal protagonista, da p,14 in poi, è quella disegnata da Montanari e Grassani, che qui non adottano la classica gabbia bonelliana a mattoncino, ma quella rigorosa, squadrata formata dalle piastrelle del bagno. (sullo sfondo, un diavolo di Depero per Vanity Fair, 1930, e una ballerina molto simile come stile).



La scelta di una griglia molto rigida sacrifica in parte la possibilità di realizzare tavole più ampie e a maggior effetto, che non mancavano negli albi storici dei due disegnatori, ma ciò serve al concetto che regge tutto l'albo.



La gabbia nel senso formalmente più puro, che per paradosso, a volte (non qui) nel suo essere "grado zero" del fumetto italiano torna a volte ad essere autorialità: l'idea di "cinema su carta" ripresa in Bonelli da Berardi in "Julia" (e, prima, in Ken Parker, ma in modo meno programmatico). Tra l'altro, il protagonista passa per un (odioso) David Foster Wallace del fumetto, con cui condivide l'aspetto le iniziali DFW: romanziere grafico (e naturalmente "autore completo"), che però adotta rigorosamente la griglia a sei (e a p.33,vi ha disegnato la p.11 della "cornice" affidata a Bacilieri). Appese a un muro (p.14) ha anche delle tavole a griglie 2x2; il suo fumetto che passa a Dylan, "Giallo tetro" ha in copertina una griglia 3X3 (come Watchmen...), ma sempre squadrate.



Il razzismo culturale è interno anche alla letteratura (la riflessione sul rapporto tra medium e forma, come detto, si intreccia a quella sul rapporto tra generi) e quindi l'Ulisse di James Joyce (che egli non ha letto) è arte, Stephen King (l'horror moderno) no per questo odioso DFW (p.20-21). Tra l'altro, Foster Wallace era stato criticato dallo stesso Recchioni sul suo blog per il rifiuto sprezzante del "popolare" (vedi ad esempio qui).







Con Robert Sosa (probabile citazione letteraria che non ho decifrato, come le altre che ritroveremo più avanti) e George RR Muradov (George R.R. Martin probabilmente, anche se l'aspetto non è quello) fa il suo ritorno anche lo splatter old style.



Il rifiuto delle regole giallistiche teorizzato da DFW (24.iv) è un'altra riflessione di meta-genere: il giallo italiano "colto" nasce col Pasticciaccio Brutto (1957) di Carlo Emilio Gadda, con Todo Modo (1974) di Leonardo Sciascia, in un rifiuto del meccanismo consolatorio della ricerca del colpevole ripresa in opere post-moderne a base giallistica come Il pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco (ed altri, ma non il primo, il Nome della Rosa, 1980) o Comici spaventati guerrieri (1990) di Stefano Benni. Un "rifiuto delle regole" che qui viene svelato anche nella sua sottile ipocrisia di auto-nobilitazione, giocare al gioco del popolare rifiutandone per snobismo le regole.



Un nuovo inserto di Bacilieri ci svela la chiusura di una prima sequenza con una nuova splash marginata (p.37). "In principio era il nero" può avere un rimando metaletterario a Sclavi (il suo "Nero." precede di poco, nel 1984, il lavoro su Dylan che si avvia l'anno seguente), ma certamente è anche in antifrasi allo "spazio bianco" del fumetto, che avrà spazio sul finale. Il senso è chiaro: Warren, pur bravo (ma non per suo merito, vedremo), ignora e disprezza la vera struttura del suo medium, e ciò infine gli sarà fatale.











Tra l'altro, mentre seguiamo questo filone, al primo livello narrativo la storia prosegue anche come il classico Dylan horror-giallistico della golden age dei primi cento numeri: appaiono numerosi comprimari che servono a creare l'elemento del whodunnit, a partire dalla Marion della Parrot Books (Penguin Books?), Ben Ballet (Ken Follett, probabilmente, prima evocato in un ritratto giovanile a p.51 e poi anziano nella sequenza della festa). Nicolas Winding Refn diviene invece un regista fighetto altrattando odioso di DFW in contrasto col protagonista per una questione di adattamento cinematografico. Rebecca, la prima moglie è ovviamente citazione hitchockiana.



Non colgo particolari connessioni con Foster Wallace, se non vogliamo considerarli come puri archetipi: NWR, accomunato dal doppio nome, è un "doppio cinematografico" di DFW; Ken Follett ne è l'opposto, come Stephen King o George RR Martin (e non a caso appare anche, in una libreria, l'ultimo della J.K.Rowling, a p. 29).



Curiosa la datazione precisa, rara in Dylan Dog ("il 2001, lo ricordo bene"); la moria di pesci ha forse valenza anti-evangelica (e richiama anche il finale di In fondo al male, il primo albo di Ratigher, al 351). 62.ii ci fa capire, con la mise del protagonista, che ci avviciniamo alla saldatura dei due filoni: la nuova pausa narrativa di Bacilieri (nuova splash marginata in 64, ritorno dell'elemento dei pesci in 65) segna l'ultimo terzo dell'opera: si sottolinea l'errore di porre una supremazia del Nero sul Bianco (67).









P.70 ci ridà di nuovo il graphic horror promesso, che ritorna centrale nella sequenza finale. Torna il parallelo (rovesciato) con Recchioni (p.75), mentre in 78.vi è un possibile rimando ad Axl Rose, certo non l'unico ad aver affermato Kill Your Idols ma immagine iconica degli anni '80 al proposito: non solo il suo aspetto è simile a quello di DFW, ma sono entrambi del 1962 (e collimerebbe anche con l'altro rimando a Recchioni, "fumettisti nuove rockstar", 25.v). E, proprio volendo, così abbiamo anche una indicazione generica per la colonna sonora dell'albo.



Alla fine la hybris di DFW viene punita con un perfetto contrappasso dantesco, che celebra implicitamente il potere dello Spazio Bianco (la closure di Scott McCloud, citato in apertura). Notare che la closure diviene una croce (97): croce dell'autore e del personaggio: il primo inchiodato alla sua crisi creativa, il secondo ridotto a sterile "mucchio d'ossa". L'orrore del bianco è del resto un tema diffuso in Sclavi, da "Non è successo niente" al recente "White Album" del suo ritorno sul personaggio.









Possibile citazione sclaviana è anche la soluzione del giallo, che ricorda molto la struttura del primo racconto di "Sogni di sangue", dove troviamo la stessa circolarità tra p.24,i e il finale dell'albo. Una soluzione che tra l'altro è un possibile punto d'equilibrio tra "giallo classico", con colpevole, e "giallo filosofico", senza colpevole. La detection c'è (con tanto d'ironia metaletteraria: vedi 77.i) ma è comunque paradossale.



"Nella logica dell'alternanza tra albi più classici e rassicuranti e albi meno canonici, questa storia si pone nel mezzo, in un cortocircuito tra Bacilieri e Montanari e Grassani", ha chiosato il curatore Recchioni. Il primo livello dell'albo può essere letto come un classico albo medio dell'old school: il giallo, lo splatter (il graphic horror) e anche il citazionismo e il livello meta-letterario possono essere letti come rassicuranti stilemi. A un secondo livello, però, diviene un'opera più complessa, come abbiamo cercato di mostrare per il "lettore (di fumetti) ideale afflitto da un'insonnia ideale".



Il gioco è tutto incentrato sul rapporto dell'Autore imprigionato nella Gabbia del seriale: DFW chiuso nel cesso che cerca di scrivere la sua storia.  A un primo impatto potremmo ritenere che DFW simboleggi il grande autore castrato dal seriale: ma sul finale capiamo che, mentre scrive la storia di secondo livello (quella di Montanari e Grassani) egli non ha mai posseduto in realtà quel talento. Quando quindi comprende che "non c'è nessuna prigione", e che se vuole può anche uscire dalla gabbia, deve constatare che egli è però incapace di muoversi al suo interno, perduto nella sua fondamentale incapacità di dominare la closure, regola comune ad ogni fumetto.



Un labirinto postmoderno che in questa forma - è l'ultimo paradosso, certo non casuale - può darsi solo nel seriale: pubblicato come graphic novel, quest'albo che porta tale definizione nel titolo cambierebbe totalmente il suo significato.