Mercurio Loi #3 - Il piccolo palcoscenico







LORENZO BARBERIS



Il terzo numero di Mercurio Loi, uscito il 22 luglio 2017, ha al suo centro il teatro di burattini, come evidente fin dall'immagine di copertina di Manuele Fior. Anche il titolo vi fa riferimento, ma introduce anche l'ambiguità che sarà propria di tutto l'albo e che è tipica del teatro, di persona o di figura. "Il piccolo palcoscenico" può essere infatti quello del teatrino, quello della vita ("Tutto il mondo è un palcoscenico" stava scritto sul frontone del Globe shakespeariano, con una citazione del suo "Così è se vi piace") e infine, a un terzo livello più sottile, quello del fumetto.



Come il teatro di figura è ritenuto "teatro dei piccoli" rispetto a quello di persona, così il fumetto è spesso visto come "letteratura minore" (è chiaro che in Alessandro Bilotta tale ripresa è volutamente problematica). Il tema ha sempre per me un particolare interesse, dato che mi sono laureato con una tesi sul teatro di figura. Naturalmente, come al solito, l'analisi che propongo può contenere degli spoiler, e quindi consiglio di leggere prima l'albo (può essere utile, a mio avviso, come guida a una seconda lettura).



I disegni sono di nuovo di un altro nome di primo piano della scena bonelliana (e non solo) come Onofrio Catacchio, di recente candidato al Boscarato 2017 come miglior autore completo per il suo La Mano Nera, qui per i colori di Erika Bendazzoli, che proseguono le scelte cromatiche della serie (colori luminosi per le scene di giorno, nei toni del blu per le scene notturne).



La prima tavola (pag. 5) è molto paradigmatica, come già nello scorso numero: tavola muta, griglia perfettamente squadrata, seguiamo l'occhio indagatore di Mercurio che, come quello di Holmes, esamina i dettagli della persona che gli sta di fronte. Mercurio sta scegliendo il successore di Ercole, il domestico ucciso nel primo numero (la serie conferma la sua continuity stretta).



Il tono del numero è poi decisamente più volto all'alchimia delle sottili coincidenze, e lontano quindi dal modello holmesiano. Se l'incontro scontro di p.9-10, nonostante l'ampio spazio, non ha per ora conseguenze nella trama, già a p.11-12 si incrocia fortuitamente un personaggio che sarà cruciale nella risoluzione della storia (un tratto già presente nel secondo episodio, ma qui più marcato).









Il teatro di burattini appare subito dopo (13) e in una scansione di tre tavole chiarisce il significato ermetico del nome di Mercurio: il pianeta ne è la ricerca della verità, il metallo l'imprevedibilità, la divinità l'intelligenza, come chiarisce il nuovo avversario coi fili, Cassandrino. Questo chiarire il significato del nome esplicita un tratto fortemente comune al fumetto e il teatro di figura, ovvero il "nome parlante" che rimanda alla loro "tradizione ingenua": il nome deve rimandare subito e con chiarezza al ruolo svolto dalla maschera.



Così il piemontese Gianduja (che nasce proprio in quegli anni di inizio '800, tra l'altro) è un oste ubriacone e si chiama Giovanni della Duja (un tipo di boccale, in piemontese), un cowboy ideale si chiama Tex Killer, e il suo diabolico avversario Mefisto. Tra l'altro, Cassandrino si dichiara subito come inascoltato profeta di sventura, quale sarà.



La storia poi si dipana di nuovo in modo non dissimile dal numero due: varie vicende parallele che si può presumere si saldino poi in qualche modo nel finale. La surreale selezione dei domestici è resa più bizzarra dal burattinaio che segue passo passo Mercurio per studiarne il carattere; i furti su commissione portano a una nuova potenziale riflessione metaletteraria, quella sul collezionismo (40-43).



Con un bel montaggio in 48-49 Mercurio scopre, sorpreso, quanto della sua anima è stato catturato dallo spettacolo di figura, in un rimando a quel potere vagamente "voodoo" che il teatro di figura ha sempre rivendicato. La metà albo viene superata con l'ammissione di aver perso la propria imprevedibilità (51.v): e anche qui vi è una sottigliezza metaletteraria, perché l'albo (scritto, sia chiaro, ottimamente) ha in effetti fino a qui rinunciato a colpire per originalità, seguendo uno schema raffinato ma ormai consueto al lettore, come detto.









Credo ci sia anche una voluta riflessione sui limiti (e la forza) del seriale, che può acquisire in profondità quello che perde in ripetitività (una riflessione che Eco aveva svolto già nel 1965, parlando dei Peanuts come massimo capolavoro dei comics: la singola striscia può avere un moderato effetto comico, ma nell'iterazione - ai massimi livelli dell'arte - di Charles Schulz crea figure di grande spessore).



Pagina 52-53 esplicano quello che un lettore mediamente accorto ha già intuito (stante la necessità di saldare i due filoni di narrazione). Non so se sia voluto - questa potrebbe essere una sovrainterpretazione - ma è interessante notare che l'Uovo Mercuriale è associato al Papa da Jodorowski nel suo ciclo dell'Incal (dove i Tecnopreti sono vistosamente gesuiti dell'età spaziale, fondati da Severo di Loyola). E il Papa, sullo sfondo, ha un suo ruolo importante in Mercurio Loi (anche in questo numero si accenna delle censure contro gli spettacoli).



La storia prosegue quindi sui canoni prefissati, mentre la cerca dei domestici assume caratteri parossistici (59), l'ultimo terzo dell'albo si apre con il ladro che scopre il fascino della Dedizione, la caratteristica archetipa incarnata dal Domestico. Se Mercurio, l'eroe, ha tre caratteristiche, al domestico ne basta una sola. A margine, è interessante notare come un certo costante stato allucinatorio di Mercurio è causato, come in Holmes, dall'uso di sostanze: volontario però nell'inglese, involontario nel romano (a causa dei suoi scontri con Tarcisio).



69.i è magistrale (anche nella dissimulazione del disegno) a introdurre un elemento che ritornerà nelle tavole seguenti (a partire, con perfetta simmetria, dall'ultima della pagina successiva, 70.v), e che guida fino al finale che, tra l'altro, ha le movenze precise di una pantomima burattinesca (88-89: spesso Bilotta mi pare lavorare sulle due pagine appaiate in modo ancor più paradigmatico di quanto sia comunque normale per il fumetto, data l'unità che formano).



Lo scioglimento del caso mette in luce la ricchezza di Augustino, che si era palesata in vari dettagli in corso d'opera (in particolare, la cura dispendiosa messa in atto nel realizzare i burattini con massima precisione). Del resto, la percezione del burattino  come spettacolo povero è in effetti un portato moderno, mentre in origine erano anche divertito spettacolo di corte e di salotto altolocato (specie forse in ambito romano, dove tale tradizione prevaleva sulle marionette a filo, diffuse al nord Italia, e sui pupi siciliani del sud Italia).



Anche la scelta di Leone come domestico (erede perfino di Ercole, per mediazione del maggiordomo che gli commissionava i furti) ha una sua coerenza: il ladro si dimostra dotato dello stesso livello di intuizione di Ottone (entrambi comprendono che la tosse di Mercurio è nervosa, entrambi colgono che il vecchio è un maggiordomo alla prima occhiata), anche se certo non al livello di Mercurio stesso. Hanno però quella "intuizione minore" che Holmes riconosceva, con perfido complimento, a Watson (e che a Holmes serviva da "cartina al tornasole", per confrontare le sue deduzioni con quelle "dell'uomo medio"): lo schema naturalmente è più quello di Batman (e in generale dei detective comics: gli "aiutanti" sono tipicamente triplici: domestico, assistente e poliziotto compiacente, qui rispettati in Leone, Ottone, Belforte).



Anche l'onomanzia vuole la sua parte, e avrebbe svelato il destino del personaggio fin da pagina 23: Leone è infatti simbolicamente connesso ad Ercole (vestito della pelle del Leone Nemeo, che vinse), e rappresenta parimenti la "forza" (a un livello simbolico: la sicurezza domestica, appunto, di Mercurio, che perde altrimenti la sua stabilità), come del resto Bel-forte e in modo ingannevole Ottone (non è Oro, che sarebbe perfettamente corrispondente, ma appunto Ottone).



Del resto Augustino spiega poi anche a Ottone uno dei suoi livelli simbolici, ovvero lo strumento musicale dai toni cupi e chiari in modo alterno, indice dell'ambivalenza della sua personalità. Nella successiva 95 Ottone pensa a un sole, e forse il riferimento è all'ottone materiale, "oro dei poveri", di nuovo con un gioco sulla sua ambigua solarità. Se anche lui dovesse avere un terzo livello, potrebbe essere legato alla dinastia imperiale del Sacro Romano Impero (la sua identità gli è svelata da Augustino, nome affine a Romolo Augustolo, con cui si era chiuso l'impero romano classico). Anche qui, una apparente grandezza imperiale: ma il rischio ovviamente è di sovrainterpretare: spinti un po', a dire il vero, dallo stile volutamente "esoterico" di Bilotta in questa serie in particolare.



Vedremo cosa ci attende nel prossimo albo, che appare orientato dall'arte di Arcimboldi.