Letteratura della classe disagiata


LORENZO BARBERIS

"Teoria della classe disagiata" di Raffaele Alberto Ventura - noto in particolare tramite la sua pagina Eschaton - è il saggio economico del momento, e analizza con ampiezza e precisione la condizione dell'attuale generazione di trenta-quarantenni, figli del ceto medio in vertiginosa caduta sociale. La copertina, particolarmente efficace, mostra una sorta di molotov di lusso, composta da una bottiglia di champagne con l'innesco formato da un foulard pregiato: un rimando quasi subliminale alla sinistra in cachemire, alla sinistra allo champagne di cui questa classe decadente appare a suo modo una manifestazione.

Come è logico e probabilmente ampiamente preventivato, il corposo libello ha suscitato un vasto dibattito, con numerosi sostenitori e altrettanti detrattori. Personalmente non ho elementi sufficientemente solidi di cultura economica in senso stretto per avanzare un'analisi su questo aspetto, quindi mi soffermo soprattutto su quello che mi ha maggiormente colpito: l'ampio utilizzo del canone letterario nella comprensione di un fenomeno socio-economico.

Questo non deve naturalmente stupire: come insegna Italo Calvino, ogni epoca deve leggere i suoi moderni come fossero classici, e rileggere i classici come fossero moderni; e quindi riscoprire ogni volta un senso nuovo nei grandi testi fondanti, o rimodularne anche in parte il canone. Ma il testo di Ventura è molto più ricco di riferimenti letterari di quanto sarebbe comune aspettarsi.

Si parte da Des Esseintes che, in "A Rebours" (1884), tramuta un giovane onesto in un assassino facendogli visitare regolarmente un bordello di élite prima di sottrargli i fondi che gli aveva prima concesso. Dopo aver ottenuto i piaceri prima proibiti, il giovane ora ruberà e ucciderà per procurarseli. In ambito italiano, negli stessi anni, mi viene in mente anche il giovane 'Ntoni dei "Malavoglia" di Verga, che dopo la leva militare lontano da Aci Trezza è inutilizzabile come pescatore, avendo visto il mondo e scoperto che ci sono alternative alla pura vita di duro lavoro.

Il riferimento di fondo è ovviamente a "Teoria dalla classe agiata" (1899) di Veblen, che chiarisce il concetto di "beni posizionali" ricercati non per il loro valore intrinseco ma come status symbol. La Classe Disagiata è quella che, nella ricerca di quei beni - consistenti in buona sostanza nella cultura in senso classico, umanistico, artistico-letterario - va distruggendo i propri mezzi di sopravvivenza, in un rovesciamento della piramide dei bisogni: trascura quelli primari e mette al primo posto il vertice, l'auto-realizzazione.

Ma immediatamente il riferimento a Veblen, come si può intuire, passa a una ripresa della Madame Bovary di Flaubert: questo culto del consumo culturale voluttuario come imprescindibile a scapito della sua inutilità e addirittura dannosità (distoglie da altre più utili formazioni, e disabitua ai vari tipi di fatica brutale) è in fondo il Bovarismo eretto a orgoglioso modello di vita, gridando tutti insieme "Madame Bovary c'est moi" assieme al buon vecchio Gustave. Viene in mente, in questo, il libro teorico che ha in tempi recenti ri-teorizzato e rilanciato il bovarismo, ovvero "Come un romanzo" di Daniel Pennac, modello di un'educazione letteraria seducente che ha contagiato - anche in modo indiretto, tramite i meccanismi della ricezione - una intera generazione di insegnanti di lettere (mi ascrivo tra i potenziali colpevoli, anche se da buon hypocrite lecteur sottolineo che, perlomeno, insegno in un ITIS dove risulto nel complesso meno dannoso).

Su un certo bovarismo scolasticamente indotto, in certo senso, si ritorna indirettamente anche più avanti, dove si mostra più ampiamente la responsabilità di un sistema dell'istruzione ingannevole perché poco selettivo come quello italiano. Per contro, un sistema selettivo come quello francese - schematizzando - produce un inganno, sia pure almeno efficiente: trasforma una differenza di classe sociale in merito, convincendo gli esclusi che l'espulsione dai piani alti derivi da una loro colpa, anche se statisticamente è legata anche, in modo significativo, alla propria classe sociale di provenienza. Ventura - con brillante intuizione, a mio avviso - addirittura teorizza l'avvento di un (nefasto) "bovarismo del fumetto e del videogame": del primo nutro, naturalmente, una alta colpa specifica con questo blog.

Segue una vasta parte critica che contesta soprattutto il sogno keynesiano (come al solito, di un Keynes anche misinterpretato per whisful thinking) di una crescita drogata da un massiccio intervento dello stato sociale, ma si riflette subito - il capitolo che ho trovato più interessante, in connessione a questo discorso - alla Commedia del debito con un canone piuttosto preciso che si delinea tra Shakespeare, Moliere, Goldoni e Checov (ma le citazioni dall'Ottocento, come abbiamo già avuto modo di accennare, sono ottime e abbondanti: del resto, è l'era della piena ascesa di quella borghesia diffusa che oggi volge alla sua fine). Finemente, Ventura mostra come commedia e tragedia sono i due lati di una stessa medaglia, specie quando esprimono l'umore nero che sta dietro a un Shylock o a certi borghesi goldoniani.

Meritorio anche il recupero di Goldoni, cui Ventura dà la giusta dimensione europea, motivandola - nella sua lettura - con la comprensione precisa di certi meccanismi economici che, in effetti, sono sempre centrali nel teatro dell'autore veneziano. Ventura decostruisce efficacemente, sotto questo aspetto, l'importanza della Bottega del caffé come falsa educazione al risparmio borghese, e come le necessità di spesa dell'alta borghesia presa nelle sue smanie della villeggiatura siano tutt'altro che infondate, a ben guardare: per avere credito serve l'apparenza della prosperità, ed è quindi razionale accumulare altro debito (il risparmio sarebbe un segno di declino, che genera sfiducia in eventuali investitori).

In "User generated culture", un interessante excursus sulla moltiplicazione della possibilità di stampa colloca la facilità di autopubblicazione odierna (in specie virtuale) con un percorso che nuovamente è interessante anche in prospettiva storico-letteraria (focalizzati su un rigido canone d'autori, si perde talvolta la dimensione esplosiva del fenomeno). Naturalmente, la blogosfera o, oggi, la galassia social costituiscono il punto estremo di arrivo: l'autopubblicazione digitale in queste forme è gratuita, salvo per lo spreco di tempo che potrebbe essere più utilmente indirizzato al reddito. Su questo, Ventura fa una citazione letteraria che mi è carissima, scomodando i vecchi APS di Umberto Eco, gli Autori a Proprie Spese che sono la base dei profitti della Garamond, la casa editrice al centro de Il pendolo di Foucault (1988). Oggi siamo tutti Autori a proprie spese a spese zero, possiamo dire.

Va aggiunto che il riferimento ad Eco è interessante, perché nel suo romanzo, come spiega lo stesso Belbo, in realtà, gli APS non sbagliano del tutto ad autopubblicarsi: entrano a far parte di una loro conventicola paramassonica che fornisce loro agganci, contatti, amicizie comunque utili con colonnelli in pensione, dirigenti velleitari e così via, che i più giovani di fatto possono sfruttare per un'ascesa sociale (sul finale, alcuni di essi sono addirittura cooptati ormai nel TRES, l'organizzazione di "illuminati" che regge il mondo: ma questa è amplificazione parossistica, ovviamente). Ma del resto lo stesso Ventura - che lo ha sfruttato con successo - non giudica totalmente sterile questo nuovo movimento APS 2.0: ne contesta però la dispendiosità su base probabilistica, e la base in verità sostanzialmente velleitaria e hobbistica, di cui è bene restare perlomeno consapevoli.

Come sintetizzato efficacemente nell'epilogo, ma come argomentato efficacemente nel corso di tutta la trattazione con opportuni esempi, dunque, "tutta l'arte sorge dalla crisi", e in misura più ampia di quel che pensiamo è una crisi di tipo economico. "Il mercante di Venezia" ci descrive i rischi di un investimento azzardato, nel Settecento Goldoni ci parla di una borghesia condannata a consumare risorse per mantenere la propria reputazione sociale; naturalismo - e anche verismo, aggiungiamo - ci mostrano nell'Ottocento il rise and fall di individui archetipi delle varie classi sociali. Naturalmente, non può mancare il rimando - fin dal titolo dell'epilogo - al "Giardino dei ciliegi" (1904) di Checov, che mostra la sterilità di una nobiltà russa che non riesce a rinunciare al suo improduttivo, ma bellissimo, giardino, come la Classe Disagiata attuale non rinuncia al mito della Cultura. E l'impiegato inetto Franz Kafka diviene l'antesignano eroe della classe disagiata. Ci aggiungerei, tornando sempre al nostro canone, anche una figura come Zeno Cosini, inetto velleitario che ha successo solo per una serie di (s)fortunati eventi, ma che è certo l'esempio di un individuo brillante e mediamente colto sostanzialmente inutile ai meccanismi capitalistici borghesi.

Uscendo dal canone "alto", interessante è il riferimento alla fantascienza distopica dell'ultimo decennio ("letteraria, fumettistica o cinematografica") che interpreterebbe l'ansia di una competizione spietata per pochi posti eccellenti - l'autore cita Battle Royale, tra gli altri, ma forse potrebbe ancor più esser significativo il classico Black Mirror, con "One Million Merits".
Più avanti, si fa riferimento al fondamento profondo della distopia contemporanea, Philip K. Dick, di cui si cita "La svastica sul sole": come il protagonista del romanzo, la Classe Disagiata sente di vivere in una "realtà sbagliata", una "prigione gnostica" di quelle care all'autore. L'accenno iniziale a Lovecraft era promettente, ma avrebbe meritato qualche sviluppo in più (magari passando per Houellebecq).

Insomma: pur funzionando a una prima lettura non specialistica, non saprei se il pamphlet di Eschaton sia davvero valido come disamina economica: ma - come spero di aver dimostrato - è indubbiamente molto interessante come cartina al tornasole per rileggere la nostra cultura letteraria. In questo, naturalmente, il testo è anche un poco tautologico: dice la Classe Disagiata ha sviluppato una eccessiva ed inutile cultura letteraria utilizzando una eccessiva - ma, a questo punto, qui non inutile - cultura letteraria e (almeno personalmente) rinfocola il fascino verso quelle inutili lettere da cui sembrava a un primo livello di voler dissuadere. Ma del resto, siamo nell'età del postmoderno e della rete: e il lettore di primo, secondo o N livello può sempre trovare il layer of irony in grado di soddisfarlo.