Disne*cide / Recensione












LORENZO BARBERIS





Con questo
Disne*cide giunge al suo atto finale Paranoid Boyd, l’inquietante serie horror
creata dallo sceneggiatore dylaniato Andrea Cavaletto per Ed Ink, casa editrice che si è contraddistinta per un orrore senza compromessi che, spesso, ha saputo offrire prodotti innovativi e molto interessanti (a puro titolo d'esempio, Aki di Natoli e il Torture Garden della Barbara Baraldi, di cui ho scritto su LSB).




Questo capitolo
conclusivo del ciclo cavalettiano si presenta più corposo dei precedenti, un romanzo a fumetti di 96 pagine per
tirare le fila del lungo e sempre più delirante percorso del suo antieroe. Qui trovate i capitoli precedenti di questo percorso, che può essere utile rispolverare prima della discesa nel maelstrom finale.













Aperto poi finalmente l'albo, si comincia
subito con meravigliose tavole dal sapore pittorico di Francesco Giani, che realizza anche la copertina. Il suo realismo acquerellato ci conduce in uno spazio onirico dove i due fratelli Roy e Walt stanno progettando il loro inquietante parco divertimenti, a cui si riferisce ovviamente il titolo. Il tutto sotto l’egida della simbolica presenza di un presidente americano,
emblematica sintesi del fil rouge della violenza che attraversa sotterraneamente
l’American Dream. Si tratta ovviamente del fulcro nevralgico della possibile operazione di black magick a cui è connesso poi anche il lunapark che sarà centrale nella storia.

Oltre la scena e il segno, anche il montaggio è onirico,
fondendo spesso le immagini (non vi sono vignette squadrate) come fumi
acquerellati che si intersecano. Le tavole sfumate di Giani torneranno a punteggiare il racconto nei momenti in cui si sfalda maggiormente il rapporto con la realtà, contrappuntate con tavole dal segno di crudo realismo che è la cifra stilistica prevalente di tale fumetto.













Dopo questa
sequenza introduttiva spiazzante, il salto alla crudezza del reale è quindi netto nelle tavole
essenziali, cupe e dal tratto marcato
declinate qui da Ester Cardella, che in una griglia tutto sommato
tradizionale ci introducono agli orrori del reale che spesso volentieri
censuriamo, chiusi nella confortevole Disneyworld che è comunque il nostro
Occidente. Un nuovo flashback è di nuovo reso col segno dell’onirismo sfumato
dell’introduzione, prima che alcune potenti splash page ci conducano a una terza
transizione di scenario, dove torniamo in un altro Lunapark degli orrori, connesso a quello degli inizi e della copertina.





L'inquietante
desolazione del parco giochi decadente, questo triste carnevale forzato in
pianta stabile, viene reso dal segno grezzo
 e spigoloso trapuntato di sfumature di grigi.
All’esteriore apparenza del divertimento fanno contrasto i pensieri distruttivi
che popolano il luogo, più o meno quelli che potreste leggere nei post della
gente comune se non tenete ossessivamente alto il livello della vostra bolla di
filtro.













Un nuovo
stacco all’acquerellato ci ribadisce il tema dell’occhio, della visione,
assolutamente centrale in Boyd già in precedenza, e qui risolutivo, come
chiarisce anche la copertina dove la ruota della giostra pare rievocare
l’orbita dell’occhio posto al centro della composizione.





Il tema
dello sguardo è certo declinato con indubbie influenze dallo splatter horror (che
qui, pur presente, resta più sullo sfondo che prima) e pare
ricondurre questo conclusivo romanzo – come e più di tutta la serie – al grande
modello italiano (e internazionale) della riflessione sulla paranoia: “
Il fu
Mattia Pascal” (1903) di Pirandello
(che già Tiziano Sclavi, su Dylan Dog, aveva
riscritto da par suo ne "L'uomo che visse due volte").





Mattia
Pascal infatti possiede uno strabismo che si corregge per divenire Adriano
Meis
, ma questa trasformazione concettuale e corporea porta alla dissoluzione
del soggetto (non manca, è ovvio, un rimando sottile alle teorie freudiane, che
Pirandello gioca a un livello più sottile di un successivo maestro come Svevo,
ma di cui è ben consapevole).





Il rimando
pirandelliano appare consapevole, dato che il tributo dei disegnatori (una
convenzione fumettistica) avviene in primis all’interno dello stesso albo, con
una magnifica tavola che raccoglie tutti i volti di Boyd
, le Centomila maschere
dietro cui il protagonista – e il lettore – sospetta ormai da tempo non esista
più Nessuno, dissoltà l’Unità del personaggio dopo le montagne russe psichiche
a cui la narrazione l’ha sottoposto.





Le vicende
della coppia di santoni (che reintroducono il tema dell’erotismo malato, un fil
rouge della serie ripreso poco dopo anche nello scenario del parco, ma presente
in modo più contenuto rispetto ad albi precedenti), nei disegni di Cristiano Sartor, introducono una ulteriore
sfumatura del disturbante, l’orrore assoluto che può celarsi a un passo da noi,
in una forma ben più concreta del semplice sfogatoio dell’inconscio che avevamo incontrato nei pensieri del Lunapark.

Non so
se Cavaletto si rifaccia alla cronaca o sia debitore alla sincronicità
junghiana
(o tutte e due) ma l’evento che va a strutturare in questo perverso culto richiama
molto da vicino una lunga e delirante faccenda reale, che preferisco non citare
apertamente (ma è facile risalirvi, per chi volesse), avvenuta nei pressi della
mia Cuneo, provincia profonda non lontana dalla sua diabolica Torino. Qui
Cavaletto ci mette ovviamente del suo nel carico emozionale, ma il parallelo
implicito col reale aggiunge una ulteriore sfumatura di unheimlich freudiano.













Dopo questa carrellata di orrori, tutto confluisce nel necessario finale, dove
finalmente anche lo splatter (prima sostanzialmente assente) trionfa in tutta
la sua disturbante potenza con il segno chirurgicamente preciso di Simona Simone che
mette in risalto le deflagrazioni anatomiche che punteggiano il confronto
finale. Uno splatter anche qui paradossalmente misurato (benché
indubitabilmente estremo), necessaria disturbante nota emotiva rilasciata al
momento opportuno, con anche alcuni subliminali d’autore (la donna col volto
divorato dai topi è un rimando – voluto o no? – al finale di 1984,
perfettamente
azzeccato se connesso alla sottotrama possibile dove le paranoie di Paranoid
sono vere, ed è davvero al centro del parco giochi di un terrificante
totalitarismo).





La
bravura di Cavaletto si esplica nell’orchestrazione del finale: tutte le vie dell'orrore che si sono intrecciate nei capitoli precedenti si sovrappongono in una texture unitaria. L'orrore come crudele parco giochi, l'orrore come la realtà lontana e quella vicina, l'orrore dell'ossessione della perversione, l'orrore puro dello splatter, l'orrore della dissoluzione psicanalitica dell'Io.





Questa abilità nell’alternare fluidamente i
registri del genere fa arrivare il lettore che abbia accettato il patto
narrativo con le difese abbassate, colpendolo con l’efficace finale a sorpresa
che subito, non concedendo nulla alla conciliazione, si dissolve nel finale
aperto, lasciando spazio solo al segno nudo, il segno indecifrabile al centro
di Disne*cide, al centro dell’inconoscibilità di Boyd.













Insomma, un piccolo gioiello del disturbante, in cui Cavaletto orchestra un contrappunto perfetto
dei vari toni dell’orrore che negli anni ha imparato a manovrare per un’opera
di terrore postmoderno, al tempo stesso frammentaria, sincopata e di grande
equilibrio formale. Orrore cospirativo, orrore sovrannaturale, orrore della
psicosi o, più terribilmente, l’orrore del nonsenso dell’esistenza,
l’indecidibilità stessa come terrore? Così è, se vi pare, ci dice Cavaletto: “liberiamo
i nostri demoni”, in una catarsi oscura. 
Che è, forse, l'unico vero modo per controllarli.