Il trittico antiunitario. Noi credevamo: un'analisi, un confronto


“L’albero è stato piantato, anche se le radici sono malate”.
(Cristina di Belgioioso)

LORENZO BARBERIS

Noi credevamo (2011) di Mario Martone è un film molto interessante, più di quanto credessi.
A un primo livello, sembra il grande classico del “film dell'anti-Risorgimento” post-1945, quelli che non piacciono a Carlo Azeglio Ciampi, che implorava “il cinema italiano”: “Ma quando fate un bel film sull’Unità d’Italia?” (ci vorrebbe il Ferretti del Machiavelli, maestà).

Quello mi era sembrato dai trailer, dai discorsi collettivi, perfino dalle dichiarazioni più opportunistiche del regista stesso. Ma vedendo il film, possiamo rispondere ad Azeglio: questo. Questo è il vero film sul Risorgimento (come il Libro è “Il cimitero di Praga” di Umberto Eco, nello stesso anno, di cui ho scritto e su cui meriterà tornare in calce).



L’opera è tratta dal romanzo omonimo di Anna Banti, scrittrice calabrese che lo compone nel 1967, ma incide solo in parte nella lettura postmoderna di Martone e dello sceneggiatore Giancarlo Di Cataldo, di cui in qualcosa in effetti si legge un certo taglio storico, tra il romanzato e il fedele. Infatti dei tre giovani meridionali protagonisti del film solo uno, Domenico, corrisponde al Domenico Lopresti avo della scrittrice, da lei rievocato nella sua opera (che seguiva di poco le celebrazioni del centenario).

Domenico, assieme ad Angelo e Salvatore, resta affascinato dai “banditi” fucilati nei Moti del Cilento (1828), e i tre decidono di affiliarsi nella Carboneria. E già qua capiamo perfettamente come andrà a finire: non male, malissimo.

Se Domenico ricorda l’omonimo Domenico Lopresti, Angelo ci riporta a Giovanni Andrea Pieri e Salvatore è ricalcato sulla figura di Antonio Sciandra. Domenico è il vero protagonista simbolo come gli altri di un’ostinazione fanatica votata al fallimento, ma tutta intessuta di una austera percezione di superiorità morale. Salvatore – l’unico dei tre non nobile – è subito ucciso da Angelo, vero contraltare della storia, che rappresenta la tensione non controllata che sfocia nella violenza. Insieme sono i tre volti dell’ossessivo risorgimento mazziniano, ferocemente antisabaudo più ancora che antiborbonico.



Ma quella prima scena di iniziazione carbonara, massonica, cupa, esoterica, ci lascia capire lo scarto rispetto alla “amara metafora” che è quasi obbligatoria. E del resto i briganti dei Moti del Cilento uniscono banditi popolari a "patrioti" romantico-borghesi, adepti della setta dei Filadelfi, nati nella Francia rivoluzionaria e poi penetrati in Italia con Napoleone, la cui storia venne narrata dallo scrittore gotico francese Charles Nodier (1815), che ne fu parte. Una filiazione italiana era la setta degli Adelfi, comandata dai Sublimi Maestri Perfetti, che parimenti associava patriottismo ed esoterismo, ebbe una filiazione anche a Mondovì (il medico che porta la Ceramica nel monregalese ne è un affiliato importante, in Piemonte), con a capo Filippo Buonarroti, discendente di Michelangelo e amico del protoanarchico Babeuf, autore della Congiura degli Eguali e fautore di un primo anarco-comunismo idealistico.

Gli episodi che vengono sottolineati in seguito sono tutti quelli del Risorgimento oscuro, a partire dal tentativo di omicidio di Carlo Alberto per mano del Mazzini, che scompagina subito le figurine dell’albo di famiglia.



Nel 1831 infatti il Gallenga, entrato in contatto con Giuseppe Mazzini, si iscrisse alla Giovine Italia e venne incaricato di pugnalare il re di Sardegna Carlo Alberto con uno stiletto dal manico in lapislazzuli, ma non eseguì il compito, fuggendo poi a Londra (1839) e rimanendo in contatto con Mazzini; rientrato nel 1848 si avvicinò ai Savoia e venne così eletto in parlamento subalpino nel 1854, rivelando poi nella su History of Piedmont, edito a Londra nel 1856, il suo ruolo nel tentato omicidio albertino dopo il "tradimento" di quest'ultimo. Ovviamente, il gesto imbecille (che sa di imbecillità "ordinata", in effetti: ma mai porre limiti all'ingegno umano) lo costringe alle dimissioni da parlamentare. Nella storia, la pavidità di Gallenga viene pagata da Salvatore: mediatore del pugnale, Angelo lo sospetta di tradimento e lo elimina. Exit Salvatore, precocemente: la rivoluzione non è posto per poveri.


Gli eventi del 1834 sono raffigurati tramite Cristina di Belgioioso, una ottima Francesca Inaudi, spocchiosa vestale del Mazzinianesimo che, fallito "l'omicidio con colpo di pugnale" ("uomini!" sembra dire con prefemminismo sprezzante) organizza e finanzia una pur velleitaria invasione mazziniana della Savoia, uno "sbarco dei Mille" al contrario, effigiato come un "Mar delle Nebbie" dove tutto è perduto. Di mezzo, nel pulviscolo di sette che nemanco il Pendolo di Foucault, si accenna anche a una creazione del vecchio Filippo Buonarroti, la Setta dei Veri Italiani.

Con un'ellissi significativa, la "grande storia" viene di nuovo tagliata: niente '48, primavera dei popoli, ma la sua rievocazione carceraria dal 1852 al 1855 da parte di Domenico, mentre gli odiati Savoia brigano e tramano. I prigionieri esaltano nostalgici le vicende della Repubblica Romana, la cacciata del Papa Re, la repubblica di Mazzini e Garibaldi, fino a che nel 1855 anche Domenico è costretto a brindare all'intervento in Crimea di Cavour, che mostra come ormai la speranza è tristemente nei sabaudi.



Ma mentre anche loro languono nelle secche, si torna sul settario Angelo, coinvolto nel tentativo nel 1858 di assassinare Napoleone III, che ha al suo centro Felice Orsini. Il film mostra la graduale trasformazione di quest'ultimo da intellettuale a bombarolo, il disegno ossessivo della bomba (che da lui prenderà nome: Bomba all'Orsini) che egli traccia prima dell'azione quasi ricorda il sigillo del Caos Magick, La cattura di Angelo porta al fallimento parziale l'attentato, lui e Orsini sono giustiziati. Notare che Orsini, nella realtà, chiese di essere sepolto nel cimitero inglese di Chiswick, a fianco del Ugo Foscolo, suo compatriota, per celebrarsi quale erede simbolico dell'Ortis ma finì invece in una fossa comune. Sullo sfondo Francesco Crispi, colto in una anticipazione dell'ambiguità del suo percorso.

Come spiega il bel blog "La cruna del Lago", "La sequenza dell’esecuzione degli attentatori di Napoleone III è stata girata all’interno del carcere di Saluzzo, in uso fino agli anni Settanta (e vi sono stati rinchiusi anche brigatisti come Curcio) con una scenografia che non ha camuffato le torrette in cemento, i vetri antiproiettile e le scale anti incendio a voler ribadire le assonanze tra vecchio e nuovo terrorismo. Ma compaiono anche luci al neon in un garage in cui si ritrovano Orsini e gli altri per progettare l’attentato a Napoleone e, in ultimo, una intera sequenza, quella dell’episodio finale con il dialogo tra Domenico e Saverio, si svolge all’ombra di piloni di cemento armato". La sabauda Saluzzo (molto vicino qui a noi, una delle sette sorelle di questa Provincia Granda cuneese) come simbolo centrale della continuità, del passato che non passa.
(vedi l'ottima recensione qui).

Lo shock per il tentato omicidio convinse Napoleone III ad appoggiare l'Unità. Ma c'è di più, che il film non dice: la cugina di Cavour, la contessa di Castiglione, inviata alla corte francese nel 1855, era divenuta intanto l’amante ufficiale di Napoleone III e lo condizionava, spingendolo anche all’azione unitaria sfruttando il terrore causato dal caotico attentato di Orsini. L’evento, quindi, è sì come colgono tutti i recensori il segno di un fallimento, ma anche un paradossale, involontario successo: spinge agli accordi segreti di Plombieres (1858) che portano poi all’Unità.

La struttura del film ha visto quindi finora al centro un attentato, una lunga carcerazione e di nuovo un attentato, abilmente usato dal Cavour per spingere Napoleone III all'azione. Forse anche il primo, ai danni dell'Italo Amleto, si lascia intendere sia stato abilmente usato dai massoni per spingere Casa Savoia al movimento unitario.

L’ultima parte, l’Alba della nazione (risuona il parallelo con Birth of a Nation) mostra l’episodio di Garibaldi fermato sull’Aspromonte nel 1862, il celebre “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba” della canzoncina per bambini. Il fallimento completo di Domenico si celebra nei Savoia che impediscono la nuova impresa romana. Anche qui, il 1859-61 è sottoposto a una cesura, la "grande storia" è tagliata.

“E’ finito, il periodo dell’azione legale è finito, dobbiamo aprire quello dell’azione extralegale. Bisogna fare saltare in aria Rattazzi, il Re, il Parlamento…” esclama Mazzini furente, vecchio, isolato, mentre Crispi si integra, il repubblicano convertito è il miglior monarchico, spiega in un discorso a un Parlamento vuoto dove Domenico, che è venuto a trovare l'amico Sigismondo (co-carcerato nel 1852, e ora anch'egli, ben più degno, parlamentare).

Parlamentare nel 1861, sedeva all'estrema sinistra, a capo del manipolo di cento democratici; in seguito però rinuncerà all'idea repubblicana, e qui è colto nel 1864 quando la rinnega: "La monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe". In seguito diverrà - più tardi - il primo ministro dei Savoia alfiere del colonialismo italiano.



A livello filmico, insomma, questo Noi credevamo costituisce un'operazione estremamente interessante, che è perfettamente parallela a un coevo romanzo dell'anti-risorgimento: quello di Umberto Eco ne "Il cimitero di Praga" che, al di là di più ampie questioni connesse al formarsi del moderno antisemitismo europeo, contiene anche una controstoria del Risorgimento tramite le azioni dell'ambiguo protagonista Simonini. Qui il fulcro è, soprattutto, l'ambigua sparizione di Ippolito Nievo (ancora un romanziere: romanzo, romanticismo e risorgimento romanzato sono inestricabilmente interconnessi), tesoriere della spedizione dei Mille, ad essere al centro dell'analisi e della prima parte del romanzo, mentre ad Unità ultimata il protagonista si dedica più che altro alla nascita dei famigerati protocolli dei Savi di Sion e, in seguito, alla cospirazione di Leo Taxil per delegittimare la chiesa nella sua lotta antimassonica.


Anche nel fumetto, inoltre, in tempi recenti, è apparsa una nuova critica all'unitarismo ne "Il grande sgarbo" di Stefano Cardoselli, che applica decisamente la modalità dell'Ucronia, della storia alternativa (ne ho scritto qui su Lo Spazio Bianco).

Insomma, dove finisce Noi credevamo potrebbe iniziare il cimitero praghese di Eco, tomba di tutte le illusioni romantiche nella cupa e sulfurea avanzata che porta la neonata Italia nel terribile Novecento. Prossimo appuntamento nel 2061. Se mai ci saranno i duecento anni dell'Unità.