Nathan Never - Hell City Blues / Recensione.





LORENZO BARBERIS



Mi era già capitato di parlare dell'interessante miniserie Generazioni di Nathan Never (vedi qui), che va a esplorare varie influenze confluite nella prima grande serie di fantascienza bonelliana.



In questo blog ho spesso parlato di N.N., forse l'ultima grande serie bonelliana "classica" (vedi qui), benché non segua più la serie regolare, anche per ovvie ragioni di tempo.



Questo primo numero dedicato a Sin City, "Hell City Blues", omaggia una serie, quella di Frank Miller, perfettamente contemporanea a Nathan Never, entrambe apparse nel 1991.









Miller non è quindi una fonte diretta con Sin City, in quanto la componente hard boiled deriva piuttosto dal cyberpunk di Blade Runner (1982), che lo stesso Miller aveva, a suo modo, ripreso in Ronin (1983) e nel suo Batman (1985), che è considerato tra le fonti di Robocop (1987), cui Miller poi lavorerà come sceneggiatore per due sequel modesti e un fumetto degno invece di un certo interesse. 











Da Robocop deriva del resto probabilmente l'idea di una polizia del futuro, ovviamente corrotta da regole del noir, che si serve di agenzie private: la OCP nel film di Verhoeven, l'Alfa nell'universo neveriano. Invece, da Ronin potrebbe venire la declinazione del cyberpunk con una più accentuata ripresa di temi orientali rispetto al movimento originario: la ricerca segnica di Miller - segno occidentale, montaggio orientale - veniva utile a una Bonelli insidiata, allora, dal fenomeno anime e manga, che adotterà una soluzione molto simile in Nathan Never (e soprattutto certe tavole di arti marziali di Stefano Casini mi sembrano molto simili, nella totale autonomia del segno).






(Ronin)



Tuttavia, in questo Hell City Blues, si guarda al Miller del solo Sin City. La componente noir viene scorporata da Philip Dick e resa più pura e originaria: siamo in un 1953 alternativo, curato nei minimi dettagli da Antonio Serra e da Giovanni Eccher a partire dal City News (un tipo di inserto narrativo tipico di Nathan Never, che probabilmente lo riprendeva da Watchmen e che, in letteratura, venne introdotto da Fredrick Pohl nel fantascientifico Gateway, 1977).









Il disegno di Alessandro Russo è fondamentale nel gioco citazionista milleriano: la scena iniziale dell'esecuzione, in particolare, ricorda la fine di Marv nel primo Sin City, con un montaggio di tavola molto sperimentale.



Tuttavia, l'autore elabora una sua versione molto efficace del netto contrasto chiaroscurale tipica della "città del peccato", una via intermedia tra le scelte più radicali di Miller e il maggiore realismo bonelliano. 



Al di là dell'inevitabile - e giusto - adattamento allo stile Bonelli, l'adozione di un segno a tratti più tradizionale è funzionale nell'evocare direttamente certe atmosfere anni '50 (pre-comics code, inevitabilmente: dopo Wertham, i noir declineranno): se la narrazione e il montaggio di tavola sono moderni e sincopati, certi studi di espressione paiono rimandare direttamente ai grandi del fumetto di quegli anni (e precedenti). 



Per girare sempre in tondo attorno a Miller viene in mente The Spirit di Will Eisner, cui Miller prestò anche un - non riuscito - omaggio cinemico. Ma qui siamo più ancora dalle parti di un segno volutamente "medio" da noir fumettistico anni '40







A parte il rimando iniziale a Sin City, comunque, la storia poi procede su binari autonomi, riprendendo tutti i luoghi comuni del genere noir, tingendoli al minimo di fantascienza in modo di mantenere più vivida questa matrice originaria e mescolandoli con i grandi topos della narrazione neveriana.



A un primo livello, per il lettore che magari si avvicina alla miniserie incuriosito senza conoscere il personaggio, la storia è un buon noir ucronico di un '53 alternativo. 



Il vero fascino, ovviamente, è per chi coglie il sottile gioco da gatto col topo di Serra ed Eccher: "tutto è a posto, niente è in ordine", ogni elemento è inserito nel gioco ma col passaggio ad un'altra dimensione gli eventi prevedibili sono andati in un modo differente (la teoria dei multiversi neveriani era già apparsa nel numero 100, se non erro, con un Never malvagio). Anche la variant insiste molto su questo concetto multiversale.







Insomma, un albo di indubbio interesse, una lettura piacevole e avvincente in grado di intrattenere il lettore, ma anche di suscitare un divertente gioco di rimandi per l'appassionato del personaggio e un primo tassello di un sistema di multiversi intrigante per il cultore di fantascienza. Non resta che aspettare il prossimo albo (dedicato a Ken il Guerriero) per vedere come la vicenda verrà dipanata.