Michele Pellegrino, una parabola fotografica











LORENZO BARBERIS


Ho finalmente avuto modo di vedere questa bella mostra che prosegue il progetto CuNeoGotico, un duraturo e complesso progetto di valorizzazione del territorio cuneese, avviato nel 2013 e incentrato - giustamente - sulla sua profonda matrice "gotica", in molti sensi.


Una mostra storica, sia nel senso della sua importanza, sia in quello della nuova storicizzazione dell'opera fotografica di Michele Pellegrino, un maestro di valenza internazionale che viene valorizzato dal curatore Enzo Biffi Gentili - mentore di tutto il progetto CuNeoGotico - cogliendo, appunto, la corretta anima gotica anche del lavoro di Pellegrino, tramite il rimando al tema del sacro che percorre - in uno studio profondo ed autentico - tutta la sua opera. 




Omen Nomen, verrebbe da dire, stante il cognome del fotografo, che non può che evocare un percorso sacrale della sua arte; e anche quel rimando alla "parabola" fotografica allude, con un arguto calembour conoscitivo, a tale dimensione.



L'immagine scelta per la locandina della mostra è perfettamente coerente con una delle due dimensioni persistenti di Pellegrino nell'immaginario cuneese: ovvero l'indagatore accorto della realtà contadina. Con le sue scelte puntuali, anche in questo ambito, Biffi Gentili sottilmente la risignifica; e - a rischio di sovrainterpretare - vi leggo un rimando all'Arcano XIII dei Tarocchi, scorrettamente dai più associato alla morte.









Si tratta invece, nella sua concezione originaria, di un simbolo di rinnovamento cosmico, distruzione ma anche generazione, che significativamente - nel filologico restauro condotto da un maestro come Alejandro Jodorowksy - è giocato sull'opposizione tra bianco e nero (la scelta di gran lunga prevalente - salvo l'ultima produzione - di Pellegrino).









Una risignificazione, sia chiaro, non nel senso di una provocatoria aggressione al testo fotografico originario, ma al contrario, come tipico in Biffi Gentili, un nuovo sguardo che rivela e sottolinea una inaspettata presenza di una componente da sempre insita nel corpus originario. 



In questa rilettura gotica di Pellegrino il curatore si accompagna a testi di un altro grande autore cuneese, in questo caso letterario: Cesare Pavese. Autore che, pur in un riconoscimento maggiore del suo lavoro, oggi risulta un po' impolverato, contro ogni merito: nonostante la cifra tonda dei 110 anni della nascita, non si è vista alcuna particolare rievocazione non "di rito" neppure in Piemonte, tralasciando il piano nazionale. 



Pavese condivide con Pellegrino una certa marcata sottolineatura della sua componente "(neo)realistica": componente presente, indubbiamente, nel rimando costante al mondo contadino, ma anche in Pavese come solido sostrato per una trasfigurazione spesso metafisico, un metafisico non privo di note anche sulfuree, come ogni autentica trascendenza.



Così Biffi ci offre una rilettura di Pavese che risignifica Pellegrino, ma anche una rilettura di Pavese nella nuova luce del Pellegrino gotico: una prospettiva che si ricollega al nuovo canone del gotico letterario che il progetto CuNeoGotico ha tracciato, e di cui avevo accennato qua.



Un accenno merita anche la notevole grafica dell'esposizione, di Ilaria Bossa e Silvia Virgillo, che se da un lato rimanda ad uno stile ricorrente nel CuNeoGotico (e nel Biffi curatore in generale), giocato sul "Rosso" e il "Nero", due poli inevitabili del "pensiero non conforme", al tempo stesso richiama anche il rigore della grafica del Politecnico di Vittorini, una cerchia con cui Pavese ebbe molto a che fare.



















La rilettura gotica quindi avvolge lo sguardo di Pellegrino sul "Profondo Nord" da lui studiato nella sua - un tempo - miseria contadina, ma coinvolge anche le "cime tenebrose", le montagne del cuneese, l'altro grande polo di produzione dell'autore. Gli scatti scelti mettono correttamente in evidenza il fascino "cuneiforme" e gotico della montagna, in un'eco di riverberi che può partire da Friedrich, adattato con sapienza da Pellegrino al nostro territorio.








Diabolus in Platea



E a proposito di monti, non può non compiacere un campanilista come me il rimando al Mons Regalis, quella Mondovì dove Pellegrino a lungo ha operato fotograficamente (rimando non partigiano rispetto alle altre sette sorelle, proprio per il legame specifico con questo territorio dell'autore). 



Tra i vari scatti, ricordo con particolare piacere il sovrastante: non so se Biffi lo sa, ma è quello che illustra la copertina de "Il diavolo in Piazza" di Ernesto Billò, un sulfureo ritratto della città monregalese e delle tensioni diaboliche che la percorrono sottotraccia.













Notevole anche lo scatto dal cimitero di Dogliani, luogo schelliniano che il CuNeoGotico ha valorizzato con particolare evidenza, anche tramite tour esplorativi dell'opera dello Schellino, eclettico geometra doglianese stimato dall'Antonelli, il padre della Mole. Una foto, questa di Pellegrino, che già aveva fatto bella mostra di sé ne "Le Camere Oscure", altra grande indagine - quella volta a tutto campo, e non sul singolo autore - sul gotico cuneese in fotografia.








spose neogotiche



Del resto, stante la bellezza autonoma degli scatti di Pellegrino, appare suggestivo - come sempre nel CuNeoGotico - la capacità di far emergere sottili rimandi, sollecitare pattern tra i vari percorsi (sempre vigente il rischio di sovrainterpretare, magari anche scovando qualche connessione inedita ma interessante). Gli studi sui matrimoni di Pellegrino, altro momento importante del suo lavoro fotografico, collegato anche alla professione ordinaria di fotografo "di servizio", contengono anche quest'immagine che fa pensare alle Regine Neogotiche di Titti Garelli, altra tappa (monregalese, oltretutto) del percorso cuneogotico: per la postura, il decoro della veste, ma anche quel misto di atteggiamento tra l'altero e il virginale nella fanciulla (là più giovani ancora).








la chiesa nella chiesa, in effetto Droste



Affascinante anche lo scatto "metalinguistico", la mise en abime della foto dedicata alla chiesa - indubbiamente gotica - di San Francesco a Cuneo, che è anche la sede stessa della mostra (come di tutte le esposizioni cuneogotiche).








tritticità del sacro



L'apice, anche grazie al sapiente espediente espositivo di questo trittico "d'altare", è costituito dagli scatti dedicati al sacro nella forma più propria, i monasteri maschili e femminili che Pellegrino - primo e pressoché unico fotografo - ha ripreso in esclusiva, superando i rigidissimi muri della clausura. Scatti, questi, di una forza particolare grazie al mix tra unicità dei soggetti e dello sguardo, che la cornice gotica e manifestamente chiesastica esaltano in sommo grado.








sacralità dissacranti



E se un sacro pagano c'è anche in certi scatti sensuali, se non erotici, dedicati alla figura femminile (mai maliziosi in senso deteriore), una delle opere più forti resta a mio avviso questa, che mi aveva colpito anche prima di vederla dal vivo.



Lo scatto riprende un orinatoio (monregalese, tra l'altro), ma le modalità della ripresa danno inevitabilmente all'immagine un sapore quasi riandante a certi scorci di gotiche cattedrali (gotiche per l'immaginario cupo: che l'arco, ovviamente, è a tutto sesto e quindi al limite romanico).



Già ai tempi mi aveva colpita questa - del resto, necessaria - "sacralità dissacrante", che mi richiamava per una volta non Pavese (nonostante l'opportuna citazione della mostra), ma Umberto Eco:

“Io non vorrei essere ingiusto con la gente di questo paese in cui vivo da alcuni anni, ma mi sembra che sia tipico della poca virtù delle popolazioni italiane non peccare per paura di qualche idolo, per quanto lo chiamino col nome di un santo. Hanno più paura di san Sebastiano o sant'Antonio che di Cristo. Se uno vuol conservare pulito un posto, qui, perché non ci si pisci, come fanno gli italiani alla maniera dei cani, ci dipingi sopra un'immagine di sant'Antonio con la punta di legno, e questa scaccerà quelli che stan per pisciare. Così gli italiani, e per opera dei loro predicatori, rischiano di tornare alle antiche superstizioni e non credono più alla resurrezione della carne, hanno solo una gran paura delle ferite corporali e delle disgrazie, e perciò han più paura di sant'Antonio che di Cristo.”



(Umberto Eco, "Il nome della rosa", Capitolo Secondo Giorno, Ora Prima, conclusione. P.127 della prima edizione).





Il passo conclude, con un voluto bathos "materialista", il discorso introduttivo che Guglielmo da Baskerville fa ad Adso - e al lettore - sulle eresie medioevali. Dall'escatologico allo scatologico c'è solo uno scarto iniziale, in fondo.








(a margine, ringrazio del ringraziamento in calce alla mostra...)



Insomma, una mostra sicuramente da vedere, nella decina di giorni ancora disponibili, per i cuneesi che non avessero ancora avuto modo di visitarla. Innanzitutto per la bellezza e l'importanza delle immagini di un autore come Michele Pellegrino, che la mostra offre l'occasione di apprezzare in una vasta antologica pervasa di un nuovo e prezioso sguardo critico. 



E, a un secondo livello, per il nuovo tassello che l'esposizione va aggiungere a quel quadro d'insieme che il CuNeoGotico ha ormai tracciato della nostra provincia, certo aggiornandolo costantemente ancor oggi ma formando ormai un ritratto completo e ricco di dettagli. Una panoramica sul cuneese da cui inevitabimente si dovrò ripartire per valorizzare il territorio nel suo senso più autentico: e non solo - e, alla fine, non tanto - per la prospettiva turistica, pur importante, ma proprio per l'indagine e la scoperta della sua anima profonda.