Jan Baetens, "The Graphic Novel"







Jan Baetens, "The Graphic Novel", Leuven University Press (2001)



Consultato online qui.



Uno studio precoce sui graphic novel in cui mi sono imbattuto nella mia ricerca di studi del fumetto.



In ambito accademico USA, la prima conferenza sul Graphic Novel è del 1998, celebrando il ventennale di "A contract with God" di Eisner.



La cosa interessante è che spiega come "graphic novel" abbia una duplice valenza: il riferimento al romanzo ("novel") come elemento di elevazione, percepito soprattutto in ambito americano (allora); e l'elemento visuale (graphic) percepito soprattutto sul mercato francese.



Il senso sembra: a una parte del pubblico di lettori americani di fumetto, si vendono con questa etichetta fumetti "colti", elevati, distinti dai supereroi; in Europa, dove esistono da più tempo fumetti etichettabili come "graphic novel" (viene da pensare a Hugo Pratt, dal 1967, ad esempio, con il primo Corto Maltese), l'utilità è vendere al lettore di libri un "nuovo tipo di romanzo", separandolo dal fumetto.



Il saggio enfatizza poi il valore duplice di "graphic": non solo "visuale" nel senso di "a fumetti", ma anche di "descrizione visuale della violenza" (che è l'analisi compiuta su casi concreti nella prima parte).



Considerazione mia: mi pare un rimando al concetto originario di nobilitazione americana dei "comics" come "satira sociale", "comicità graffiante", e non solo "comicità per bambini" (i "funnies").



Il tema dell'ambivalenza del "graphic" è indagato con riferimento all'ondata di romanzi (cartacei) apparsi dopo la Grande Guerra (Remarque, ovviamente, ma anche altri) in cui si identifica uno stile per la prima volta - come fenomeno complessivo - fortemente "graphic", nel senso di descrizione senza fronzoli ed edulcorazioni dell'orrore reale.



Ovviamente, il parallelo è con quanto avviene con Maus, che usa il segno dei comics per parlare di una realtà "graphic" come l'orrore della Shoah. In parte il segno di Spiegelman rende "dicibile" quell'orrore a fumetti (in cui non mancano cataste di corpi umani, etc.) tramite la metafora del gatto e del topo: ma come spiega egli stesso in Meta-Maus, ciò non va visto come una semplice "edulcorazione", ma più una adesione agli strumenti propri del medium, tra cui storicamente il cartoon.



Un punto di mediazione viene visto nelle critiche di Wertham (1954), che in effetti accusa il fumetto di un eccesso "grafico": anche quando il fumetto vuol farsi "colto", con gli adattamenti letterari dei Classics Illustrated, esso va condannato perché rende visuale ciò che deve rimanere parola scritta, trasformandolo la violenza mediata della scrittura in quella im/mediata dell'immagine.



Ovviamente, l'autore sottolinea come Spiegelman abbia comprovato il superamento di tale limite.



Molto interessante è poi lo studio sull'espressività facciale, altro elemento che rende "graphic" il "graphic novel": l'espressività è sempre enunciata (di norma, salvo espedienti particolari), e spesso con la caricaturalità del cartoon.



Ciò viene analizzato in primis su Maus, che è al centro assoluto della riflessione (altro segno, se era necessario, della sua rilevanza) ma anche, per un raffronto, sull'Adolf di Tezuka, dove ritorna l'uso della caricaturalità dei comics, in questo caso nella loro versione manga. E, per quanto riguarda l'Europa, si esaminano alcune pagine di Tintin di Hergé. Pare insomma rimanere l'idea di un forte cartoonism come tipico del fumetto, specie quando si vuole "graphic": mentre, in effetti, in ambito europeo - o perlomeno italiano - il graphic novel si associa più a un segno realistico oppure, ancor più facilmente, per un segno di sintesi "non cartoonistica" (i tre vertici rispettivi del triangolo semiotico di Scott McCloud).