Andrea Cavaletto, "Doll Syndrome" e l'horror estremo

 


Andrea Cavaletto è ormai uno dei nomi più interessanti nell'horror fumettistico emerso nell'ultima decade. Al suo lavoro bonelliano su Dylan Dog e, in misura minore, Martin Mystere (oltre che al prestigioso Tex) ha affiancato quello sul suo romanzo a fumetti personale, "Paranoyd Boyd", e altre opere di livello come "Madre", la biografia di Charles Manson, il notevole "Nuvole Nere", oltre a presenze sulla classica rivista-contenitore "Splatter". Su questo blog - che ha il suo focus sul fumetto "gotico" ed esoterico - abbiamo seguito con cura il suo lavoro (vedi qui per tutti gli articoli in cui se ne parla).

Cavaletto ha anche affiancato alla sceneggiatura fumettistica quella cinematografica, sempre con una predilezione per l'orrore estremo (è anche valido disegnatore, e sarebbe interessante una sua opera come autore completo). Ora compie un nuovo ampiamento delle sue competenze di scrittura, e si cimenta con un romanzo tradizionale con "Doll Syndrome", in uscita a settembre in ebook (con una versione cartacea limited), che riprende il titolo e, le tematiche del film di Domiziano Cristopharo (che aveva vinto il Glascow Horror Festival), di cui è la novelization, e di cui Cavaletto era autore della sceneggiatura. Anche le due copertine del libro (sopra, ad opera di Davide Furnò) e del film (qui sotto) presentano degli evidenti elementi comuni (assieme a differenze significative).


Il volume è in uscita per Black House, progetto editoriale indipendente di Christian Sartirana, volto a esplorare i territori dell'horror e del weird. In questo caso, come spesso per Cavaletto, siamo nel terreno di una esplorazione dell'orrore radicale ed estremo. Ci teniamo a ribadirlo in quanto non entreremo particolarmente nel dettaglio in seguito, sia per evitare spoiler, sia per il pubblico generalista di questo nostro blog. Sia quindi chiaro che, per quanto si denoti - come diremo - un'ottima qualità di scrittura in senso tecnico, non è un prodotto per tutti i palati, anzi.

Al centro vi è la figura dell'Orco, un ex mercenario con sindrome post-traumatica e una vita difficile fin dall'infanzia. Non siamo però nei dintorni del "patetismo del mostro" tipicamente sclaviano (e che affonda le sue radici in "Freaks", film di Browning del 1932). Infatti l'Orco risulta estremamente disturbante per il cocktail impressionante di parafilia, disturbo mentale, culto della violenza anche autoindotta. 

C'è un gusto del sovraccarico che mira a produrre una repulsione radicale nel lettore, resa efficace proprio da una scrittura asciutta, essenziale, per paradosso non compiaciuta ma fredda, descrittiva, chirurgica. Bruno Bettelheilm parla di un "piacere di avere paura" per le fiabe della tradizione europea. Qui, in questa fiaba nerissima (c'è pure un Orco, come da tradizione) ci troviamo dalle parti di una nuova forma, "il piacere di avere disgusto". 

Naturalmente, non è una cosa nuova in assoluto, e lo splatter e il gore sono elementi da sempre presenti nella storia dell'horror, emersi in modo centrale dagli anni '80 in poi. Altrove, come in Paranoid Boyd, Cavaletto li miscelava con altre tradizioni orrorifiche più tradizionali (mentre su Dylan Dog vi deve in sostanza rinunciare, in favore di un orrore magari radicale in certi concetti, ma meno indigesto al lettore comune).

La prefazione di Paolo Di Orazio, tra i decani dell'orrore italiano, mette in giusta evidenza la "natura immersiva" del romanzo, come già del film di Cristopharo (per cui si evoca un lusinghiero parallelo col "Dogma" di Von Trier e col cinema di Refn). Siamo portati a calarci "nella mente del mostro": ma la cosa specifica di questa operazione è che tale abitacolo resta totalmente respingente. Cavaletto adombra anche "le sue ragioni", nel difficile passato personale e militare, ma questo non attenua la repulsività della creatura.

La scrittura è molto efficace in questo, particolarmente nell'espediente che viene evocato anche in copertina, ovvero l'uso ossessivo dei punti di pinzatrice, rimando al lavoro quotidiano del mostro che però diviene il punto di tangenza con le sue ossessioni. Un elemento che - sintetizza molto bene la cover di Furnò - si salda, anzi si pinza, all'ossessione erotica, alla "sindrome della bambola" di copertina. Di Orazio evoca il futurismo nelle modalità espressive di certe ripetizioni ossessive, anche con elementi grafici: Cavaletto contrappunta questi momenti con altri di prosa limpida e precisa (nello stile, e non nel contenuto), facendo risaltare di più entrambi i momenti. 

Cavaletto insomma dimostra di aver compiuto molto bene il passaggio dalla scrittura "tecnica", preliminare della sceneggiatura - di cinema e di fumetti - alla scrittura "pura" del romanzo. Come è un po' ovvio ribadire, le due esperienze precedenti si possono leggere in controluce in questo gusto di una scrittura molto precisa e molto grafica, cui del resto guarda da tempo la scrittura italiana, perlomeno dai Cannibali di metà anni '90 che sono stati forse l'ultima significativa avanguardia di uno scenario un po' stagnante (e, non a caso, di - non del tutto confessata - derivazione fumettistica dalla rivista/avanguardia anni '70 di Pazienza, Tamburini e Liberatore, Scozzari e Mattioli). 

Per certi versi, fatte le dovute proporzioni e nel permanere di stili personali, viene in mente la ricerca di asciuttezza che Tiziano Sclavi aveva portato nel romanzo horror tra anni '80 e '90 (un narratore che l'editoria e la cultura mainstream avrebbero il dovere di riscoprire).

Confesso che, per gusto personale, mi piacerebbe vedere Cavaletto asciugare sue future opere dal sovraccarico dell'orrore del disgusto (che, chiaramente, riconosco essere ora una sua intenzionale poetica) per rivitalizzare una tradizione orrorifica "più mainstream" (relativamente), anch'essa un po' languente, nel segno - ovviamente, aggiornato - della monomaniacalità di un Poe, e dei suoi allievi italiani scapigliati, come un Tarchetti. Per esempio, in questo caso, esaltando il singolo elemento dell'orrore dei punti di pinzatrice, un elemento del quotidiano tramutato in ossessione disturbante, che presenta, parafrasando Vygotskij, una "Zona di orrore prossimale" perché più vicina al normale, laddove il sovraccarico induce un potenziale distacco. Ma a questo, lo riconosco, mi induce il gusto soggettivo: e, naturalmente, potrebbe essere il lavoro di Cavaletto giunto a qualche casa editrice più generalista: così come il suo lavoro sull'horror estremo gli ha permesso di rivitalizzare (assieme altri) Dylan Dog nel "rinascimento dylaniato" della curatela Recchioni (dal 2013, e in corso).

Per intanto, se ve la sentite e se un horror radicale senza alcun limite è la vostra "cup of tea", non posso che consigliarvi questo primo romanzo di Andrea Cavaletto". E cercate di non perdervi nel buco nero della Doll Syndrome.