Lorenzo Mò, "Omnilith" (Eris Edizioni, 2023)

 


"Omnilith" di Lorenzo Mò, recentemente edito da Eris Edizioni, può a mio avviso diventare un capolavoro del fumetto neopop di questi anni.

Lorenzo Mò è al suo secondo graphic novel con questo fumetto, dopo tuttavia un percorso ampio di collaborazioni prima sulla scena indie, con partecipazioni a LOKzine, Lucha Libre, B Comics, Prismo, Sciame, Frankenstein, Canemarcio, e da tempo sull'ammiraglia del fumetto italiano, Linus, a partire dal nuovo corso impresso con la curatela di Igort; con collaborazioni con Coconino e con Lupo Alberto.





Il graphic novel di esordio, "Dogmadrome" era uscito sempre per Eris nel 2019, ancora nell'era pre-pandemia, e aveva riscosso un notevole successo, vincendo il Premio Lorenzo Bartoli come Miglior Promessa del fumetto italiano. Nella categoria di Miglior Opera Prima era stato candidato al Premio Micheluzzi e al Premio Boscarato, tra i due premi principali del fumetto italiano; degno di nota che per il Micheluzzi era stato candidato anche a Miglior Sceneggiatura, indice del valore di Lorenzo Mò, autore completo, anche sotto l'aspetto della scrittura oltre quello del disegno, in cui la sua bravura è forse più immediatamente evidente.

Questo secondo volume esce sempre per Eris, dopo un bel racconto a fumetti realizzato per il progetto Fumetti nei Musei uscito in mezzo, e se da un lato riprende alcuni elementi di quell'esordio, dall'altro tenta altre strade, molto interessanti.





Indubbiamente in comune possiamo notare il tema fantascientifico, che si esprime in un titolo lievemente misterioso ma al tempo stesso rivelatorio, che con un termine inglese ci introduce il sistema tecnologico che sarà al centro della speculazione fantascientifica. Un tema comune che, intelligentemente, viene sottolineato dall'autore e dall'editrice (che rimane la stessa, Eris) con un impostazione simile nella cover - richiamando le locandine dei B movie, in questo caso in modo ancor più richiamati anche nella trama - e perfino nel colore rosso scelto per la grafica della cover.

Tuttavia, ci sono anche significative differenze, sia nello sviluppo della storia sia nel lavoro sul segno, che vedremo nel prosieguo dell'analisi.

Mò e il Neopop



Iniziamo a dire che Mò va, a mio avviso, collocato nel filone del Neopop a fumetti (e non solo) di cui spesso si è parlato in questi anni. Una categoria a suo modo sfuggente, insoddisfacente come tutte le etichette artistiche, e che però è significativa nell'identificare una certa costellazione di scelte visive. Io avevo scritto qui qualche nota a margine sul fenomeno in ambito fumettistico stretto.

L'etichetta in ogni caso richiama un più codificato movimento artistico così denominato (vedi qui una sintesi estrema) che riparte ovviamente dalla Pop-Art classica per riprenderne in modo più libero gli spunti e suggestioni. Sono stati associati al movimento nomi come Jeff Koons (citato nell'ultimo Spider-Verse, in un modo finissimo) e  Takashi Murakami, e in Italia Marco Lodoli e Giorgio Laveri, ma anche la Craking Art, graffitari come TvBoy, e anche fumettisti come Pablo Eucherren e Massimo Giacon.




Naturalmente, nel fumetto l'operazione della pop art diviene, come direbbe Eco, "bizantina": la Pop Art di Warhol e Lichtenstein parte principalmente dalla decostruzione del fumetto tramite il passaggio all'arte visiva non sequenziale, che lo decontestualizza. 




Nel fumetto NeoPop invece il ricco rimando di citazioni visive passa comunque tramite un "ritorno al fumetto": gli elementi naif fumettistici che vengono risignificati passano comunque tramite una storia a fumetti che, a un "primo livello", resta comunque leggibile e apprezzabile dal lettore comune (che spesso ha solo i riferimenti ultra-pop del fumetto: la Disney, i cartoni animati giapponesi da bambino...), ma a un "secondo livello" si può apprezzare l'intrico delle citazioni e la cura raffinata nella realizzazione dell'opera.





Non è un caso che Mò, come da lui confermatomi anche nell'ultima nostra presentazione congiunta della sua opera, sia di quei fumettisti che apprezza il dialogo col cinema nel suo lavoro, sulla scia di quel fumetto visto autorevolmente come "cinema su carta" da Hugo Pratt, ovviamente con riferimenti e quindi esiti profondamente diversi. Mò infatti pone a "fonti primarie" di questo suo lavoro film di azione concitata come "I guerrieri della notte" (1979) di Walter Hill e, appunto, la decostruzione che Quentin Tarantino ha operato, da "Le iene" in poi, rispetto a quel cinema di genere. 

Possiamo dire che Mò, per certi versi, realizza un lavoro analogo, come vedremo, a livello fumettistico.


Le basi fumettistiche nel NeoPop di Mò



Il segno di partenza è quello che si codifica tra anni '30 e '40. Nelle prime tavole notiamo una citazione che palesa il riferimento principale: abbiamo infatti la locandina un lottatore che si chiama Shark Avery, che diventa un chiaro rimando a Tex Avery. Un modo, a mio avviso, per dire "più Avery che Disney", nel segno già più "cattivo" di questo autore rispetto al mondo almeno apparentemente lezioso di zio Walt.




Anche se la maschera dell'elefantina rosa di Bebop pare un richiamo alla psichedelia lisergica di Dumbo, dove gli elefanti rosa suonano un jazz allucinatorio e il Bebop è ovviamente lo stile del jazz degli anni '40 caratterizzato da maggior velocità e armoniche creative. Un rimando a quegli anni, ma anche al Jazz come mash up di suoni pop e sperimentale al tempo stesso (questo è un altro punto di forza del lavoro di Mò: un character design particolarmente accurato e significativo, che rende "tridimensionale" ogni personaggio, anche periferico. L'autore mi ha confermato di aver sviluppato uno studio accurato preliminare sui singoli personaggi).



(Mo omaggia Jacovitti, su Linus)


A livello italiano, una prima "decostruzione" di questo segno avviene molto precocemente con Jacovitti, che non si limita a riprendere quegli stilemi - come fa, sia pure con grande abilità, il Craveri di Zoolandia, il disegnatore di punta del Vittorioso prima dell'arrivo di Lisca di Pesce - ma li rielabora in una sintesi personale.




Una seconda rilettura, molto significativa, è quella di Mattioli all'interno dell'avanguardia punk dei Cannibali fumettistici degli anni '70. Ma anche Pazienza e Scozzari riprendono e rielaborano in modo personale quel segno: quanto aveva già fatto l'underground, ma portato da loro ai massimi livelli dell'arte. 




Mo omaggia Pazienza, su Linus


Per certi versi, a completare il corollario dei rimandi, se a questi può richiamarsi Mò per il segno, la situazione ricorda molto la distopia urbana in cui si muove Ranxerox di Tamburini e Liberatore, iperrealistico invece nel magnifico tratto.




La sintesi visiva di Mò

Mò però opera una sua elaborazione personale della rilettura neopop di quel segno classico, mescolandolo anche con rimandi nipponici. Qui, trattando di lottatori, è evidente il richiamo all'Uomo Tigre, ma anche occhieggia molto fumetto giapponese più vecchio, dalle parti degli anni '50 di Tezuka (dove spiccava anche il Rocky Joe di Takamori).




In qualche modo, è come se Mò cercasse di ricostruire un segno contemporaneo ma precedente alla scissione avvenuta tra scuola occidentale e scuola orientale, tra comics e manga, sviluppandolo però in chiave moderna.

Più che al manga, il rimando è infatti poi nel segno ai cartoni animati, a colori, che dal 1978 hanno iniziato coi megarobot la loro rutilante invasione del suolo italico. In qualche modo l'effetto riprende infatti, in modo colto, quei fumetti ingenui ma a loro modo affascinanti usciti all'indomani dell'esplosivo successo di Goldrake e soci: in modo discutibile, si erano riprese direttamente le immagini colorate dei cartoni animati adattando i fotogrammi a vignette. 




Uno stilema ripreso anche da Alex Toth in una sua opera poco ricordata come "Space Ghost". Ecco: le immagini di Mò hanno la stessa vibrante vitalità, esaltata dalle scelte cromatiche accurate e dalla scelta della smarginatura.

La narrazione tarantolata

Se questi mi paiono i rimandi principali per il segno, è interessante poi vedere come Mò li adatta a una narrazione particolarmente adrenalinica, dove si riprende un certo tipo di B-Movie (alcuni assurti a livello di cult) di passaggio tra anni '70 e anni '80, in cui la storia serve da spunto per inanellare una serie di combattimenti spettacolari. 




Mò cita in particolare "I guerrieri della notte" (1979) di Walter Hill, ma in generale si guarda a quel tipo di pellicole in genere, e appunto alla ripresa "ironica" e consapevole che ne fa Tarantino. L'elemento che conferma la scelta tarantiniana è la presenza, fin dalla cover, della classica "donna con la Katana": ma questo è solo l'icona di un rimando diffuso a quello stile.



Un aspetto tarantiniano è ad esempio l'elisione: come nelle Iene la rapina non si vede, qui la lucha libre non è mai rappresentata in scena: non vediamo praticamente mai una vera sequenza di combattimento sul ring, sempre per il principio che ciò che non si mostra viene rafforzato (come il macguffin di Pulp Fiction): gli spettacoli di arti marziali che tutti descrivono come incredibili non li vediamo mai, vediamo i combattimenti concreti dove i combattenti, pur nella loro eccezionalità, soccombono talvolta a nemici armati di spranghe o armi da fuoco.


Si tratta dell'aspetto forse più raffinato della struttura narratologica dell'opera di Mò, che viene sviluppato particolarmente bene dall'autore: questa "scomparsa" (per citare Perec) non viene infatti percepita dal lettore di primo livello, e comunque non viene percepita come forzosa, ed è l'aspetto a mio avviso più notevole in sceneggiatura per come caratterizza poi lo sviluppo della storia stessa. Per tale ragione è omaggiata anche nella struttura di questa recensione, come può cogliere un lettore attento.


Altro tarantinismo è il meta-fumetto ironico usato a volte dall'autore, senza eccessi ma presente: il protagonista Doc Vampire ossessionato dai critici, di essere "troppo anni '90", e il suo paradossale scetticismo verso l'Omnilith "ridotto a un fumetto" dalla pubblicità in cartone animato all'interno della storia (per le immagini, vedi il mio post su facebook).


Tarantiniana anche la scansione dell'opera in tanti capitoli, brevi e dal titolo ad effetto, spesso legato al diverso effetto cromatico della copertina, dove vediamo una serie di cerchi concentrici completarsi, quasi l'Omnilith che procede verso il suo caricamento. Tale tecnica accentua l'enfasi verso il finale, scandendo l'inevitabile countdown verso lo showdown finale.

Il gusto ironico alla Tarantino rende la trama segnata da un ritmo adrenalinico, anche se forse (ma è l'aspetto in sé che a Mò interessa meno) prevedibile nella sua scansione verso il combattimento finale per il lettore più smaliziato, salvo una certa originalità non scontata della conclusione.





Ma in fondo è una caratteristica anche di quella tipologia di film, che fa prevalere il gusto di una certa ritualità. Per certi versi, si è parlato a volte di un cinema influenzato dall'estetica del videogame, prima nella SF spaziale alla Star Wars - di poco successivo a Spacewar! e Space Invaders, e cloni - e poi di quella "picchiaduro" che anticipa in realtà il successo del genere vero e proprio, ma è coeva delle adrenaliniche mazzate dei primi platform.

Abbiamo detto come quest'opera sembri smaniare per diventare un film o un cartone animato, in questa estetica di "cinema su carta": sarebbe bello vedere le potenzialità di uno SpiderVerse su Mò, ma anche una messa in scena in carne e ossa sullo stile di Mainetti, per dire, potrebbe dare dei bei risultati. Però, forse, un videogame picchiaduro in retrogaming sembra scriversi da solo.


La fantascienza di Omnilith: the future is bright



Gli elementi fantascientifici del fumetto di Mò sono forse quelli più pretestuosi: ben sviluppati, ma sono più una cornice per fornire lo spunto a un pirotecnico "fumetto di menare" libero da pastoie di eccessivo realismo. Tuttavia, la decostruzione funziona anche sotto questo aspetto. Mò riprende bene un classico della Anti-Utopia, ovvero una distopia che svela l'aspetto terrificante nascosto sotto una utopia.

In questo caso è il mito che potremmo dire del Futuro Gladiatorio, un mondo di domani in cui i giochi gladiatori hanno un ruolo di primo piano, un tema apparentemente minore ma ricorrente della SF americana. In fondo, gli USA si sono sempre visti come una proiezione moderna dell'Impero Romano esteso al globo, quindi la fascinazione per i gladiatori è comprensibile.

Non rientra strettamente in questo filone, ma è significativo che l'opera che anticipa Superman sia "Gladiator" (1930) di Philip Wylie, citata anche in Watchmen. La SF rielabora tale concetto in modo speculativamente interessante soprattutto a partire dalla SF sociologica anni '50, dove è Sheckley a immaginare una società con giochi gladiatori in Anonima Aldilà (la morte è reversibile grazie a una tecnologia controllata dalla Immortality Inc.: quindi i giochi letali sono di nuovo legalmente possibili).

Accenna al tema anche nel suo "La settima vittima", poi portato al cinema, qui da noi, da Elio Petri in un celeberrimo film di fantascienza italiana. Ci sono poi opere come "Rollerball", "L'uomo in fuga" di King sotto il nome di Bachman, e altri casi interessanti.




Mò sceglie una declinazione attualizzante, con la multinazionale in pieno greenwashing che offre nell'Omnilith il catalizzatore dell'energia sprigionata dagli scontri di arti marziali, offrendo una energia pulita al pianeta. Non mancano filmati in cartone animato che richiamano quelli della Disney anni '50 di "Our Friend, The Atom", parodiati anche in un videogioco come FallOut.

Siamo direi agli antipodi sotto il profilo visuale, ma la struttura ricorda quella paradigmatica di molti episodi di Black Mirror, qui ovviamente in un Colorful Mirror dove il tema distopico è rispettato ma come spunto per l'azione ultraviolenta e spettacolare.

Lo starting point scelto, il 2099, rimanda forse all'anno scelto dalla Marvel per il proprio universo narrativo riscritto in chiave cyberpunk

Se poi lo sviluppo dello spunto sci-fi è corretto ma non il punto centrale dell'autore, la trama noir è invece molto ben congegnata, con un intrigo sufficientemente complicato ma che regge bene a una seconda lettura.


Conclusioni





Insomma: concludendo, mi pare di aver spiegato perché questo "Omnilith" abbia buone possibilità di restare tra le opere significative del neopop di questi anni. Ma, in generale, mi pare tra le opere che indichi una strada interessante per il fumetto italiano. Sufficientemente aggiornato sullo stile da poter avere le sue chanches, se gliele si darà, in una prospettiva globale, ma sufficientemente "italiano" (e non nel senso che dà Stanis in Boris, ovviamente) da essere riconoscibile come prodotto del "fumetto" (etichetta che a mio avviso è suicida sacrificare a comics, ma questo è un tema che trascende questa recensione). Inoltre siamo in un periodo in cui il fumetto deve inserirsi in un sistema crossmediale: l'hanno insegnato per primi i giapponesi, che da sempre hanno agito in questo modo; lo hanno fatto benissimo gli americani, lo fanno i francesi. 

La tradizione italiana - tra le quattro grandi per riconoscimento abbastanza universale, con la eventuale contesa degli argentini... - è quella che più fatica in questa direzione, con molti esperimenti riusciti a metà di passaggio filmico, esperimenti di livello ma difficili come quelli di Gipi, qualche eccezione luminosa ("Lo chiamavano Jeeg Robot" di Mainetti) e il caso unico di Zerocalcare, oggi alla seconda stagione della sua serie.

Ora, questo fumetto che dialoga da vicino col cinema mi pare perfetto, se non per l'animazione, per un cinecomics italiano. Si tratta ovviamente di una pura speculazione, ma personalmente mi piacerebbe davvero moltissimo sedermi al cinema con un cesto di popcorn per vedermi un turbinare di arti marziali in "Grosso guaio a Future Town" firmato da Lorenzo Mò.