1894. Sava Pasha, De l'idealisme e du realisme dans le roman




Ritrovamenti sui mercatini fossanesi.


Questo, del 1894, l'unico ottocentesco, è un volume curioso, non tanto per l'argomento, che comunque mi interessa (si analizza la questione posta dal naturalismo di Zola e soci). Ma per il suo autore, Savvas Pacha o Sava Pasha come è più frequente.


Nato a Ioannina nel 1832 con il nome di Joan Sava, figlio del medico Kristo Sava Efendi e di Eleni Panos. La famiglia di suo padre proveniva dal priorato di Janinian, i cui antenati avevano avuto attività commerciali all'interno e all'esterno dell'impero, così come sostenitori di Ali pasha Kumanovan.


Dopo aver studiato a Zosimea, Joan Sava si trasferì a Istanbul per frequentare la scuola di medicina imperiale, dove si specializzò come medico legale. Studiò anche a Parigi e Pisa. Fu governatore di Isfahya (Creta) tra il 1870 e il 1875. Divenne il terzo direttore del Mekteb-i Sultan il 27 maggio 1874. 


Servì come Vali presso le isole del Mediterraneo tra il febbraio 1877 e il maggio 1878 e presso la Rumelia orientale tra il luglio e il dicembre 1878. Nel dicembre dello stesso anno ricevette il titolo di Pascià come Ministro dei Lavori Pubblici. Divenne Ministro degli Affari Esteri nell'ottobre 1879 e, dopo aver mantenuto questo incarico fino al giugno 1880, divenne Ministro dei Lavori Pubblici e membro della Commissione dei Lavori Pubblici nel 1885. Prestò servizio come Vali di Creta tra il giugno 1885 e il gennaio 1887. Dopo il 1889 visse nella città di Neuilly, vicino a Parigi, dove morì nel 1904 o nel 1905


Sebbene Sava Pascià fosse un cristiano ortodosso, a volte documentato come albanese, a volte come greco-albanese ed epirota, è l'autore di uno studio sulla teoria della legge islamica.


Il presente volume è scritto nel 1893, in seguito a una lettera di Dumas padre a Dumas figlio edita sul Figaro. Sava lo dedica a Madame Juliette Adam, amica anche di Dumas figlio e influente figura letteraria dell'epoca. 


La tesi del volume, enunciata fin dalla prefazione, è che il compito della letteratura è sì la rappresentazione del vero, ma con una tensione all'ideale, non a "turpitudes et bassesses".


L'opera si struttura quindi come un "saggio epistolare", dove le lettere all'autorevole padrona di casa del salotto letterario parigino (alla sua "corte" anche George Sand e molti altri) servono a esplicare la sua visione. 

Nella prima lettera si esalta Solomos, massimo poeta greco di allora per l'autore, che fa leggere al popolo il suo grande poema, il Lambros (1834), e brucia quelle parti che non sono apprezzate.

Sava lo fa pari a Dante (!), e lamenta che Voltaire disprezzi la Divina Commedia nel secondo saggio-lettera, dove confronta poema epico e romanzo. Egli mette in discussione l'eccessiva distanza tra i due: il romanzo è degno del poema epico. Se gli spiace del disprezzo volterriano per Dante, si fonda su di lui, però, per dire che egli considerava positivamente il Furioso d'Ariosto come "un roman". Egli quindi prosegue il parallelo citando Tasso, Giusti, Omero, Walter Scott e Cornaros (poeta cretese del tardo '500).

Egli crea un continuum tra questi grandi, e sostiene che invece, tristemente, i Rougon-Maquart hanno sostituito oggi queste meraviglie.

Nella terza lettera comunque esamina le differenze tra romanzo ed epica. Dumas padre è posto come il vero fondatore moderno del genere, con grande encomio, mentre da Volteire, con la Pulzella d'Orleans, viene a suo avviso il gusto dissacratorio che trionfa in Zola, sua bestia nera, mentre egli ancora lo tollera in Sue, nei Misteri di Parigi, dove il male è mostrato senza soverchio compiacimento (si ribalta il giudizio moderno).

Ma, in generale, il '600 e il '700, col loro gusto di "exciter le gout public", hanno preparato la decadenza dell'Ottocento naturalista (del '700 egli parla di Voltaire e degli illuministi, e probabilmente anche dei libertini senza nominarli; ma li fonda già sul gusto del barocco).

Egli riconosce che il licenzioso fa parte del romanzo, che si fonda su Satyricon di Petronio. Ma, al contempo, è stato nella storia l'eccezione, non il sistema come avviene dal 1860 in poi. Il canto di Zola che esalta la corruzione dell'umano è opposto alla moralità del Tasso che "Canta l'armi pietose e 'l capitano" (in italiano nel testo).

Egli si fa forza poi dell'autorità di Aristotele che, per dignificare Aristofane e i dialoghi socratici di Platone, li colloca non nelle loro categorie, ma come "opere epiche scritte in prosa" (non saprei quanto sia fondata tale affermazione). Quindi Sava riconosce gli elementi distintivi tra epica e romanzo, in questa lettera, ma ritiene comunque che sia più forte la continuità.

La quarta lettera si intitola "Le realisme n'est pas possible dans l'art", dove sostiene impossibile la rappresentazione della realtà nelle opere, ma solo di una versione ideale. Zola non è il più realista, ma il più ideologico: non descrive la realtà così come è, ma la vuol vedere negativa. Cita anche il De Gubernatis, critico italiano citato anche da Eco nell'elefantiaco Pendolo di Foucault, e conduce poi la disamina su "La terre" di Zola, dimostrando tutte le sue forzature: "Il grande scrittore mette la frusta sotto al culo del suo pegaso furibondo" (inteso come fantasia sfrenata, direi).

La quinta lettera esamina le pretese dei realisti, di essere gli unici a rappresentare il reale. Egli invece sostiene che da sempre il vero artista parte dal reale per così come è, ma tenendo conto del bene come del male. Egli si fonda qui anche molto su Dante e sulla Commedia, con citazioni in italiano nel testo.

Di nuovo poi si scaglia su Zola e si ricollega al Satyricon: è vero che Petronio anticipa molti temi poi esplorati dai naturalisti, ma lo fa con eleganza e senza termini espliciti, "auctor purissimae impuritatis". La nostra epoca, conclude Sava, è più corrotta dei romani della decadenza (da cui il fine '800 è affascinato).

La lettera sei esamina quindi - e stronca - i Rougon-Maquart, l'ampio ciclo di Zola dedicato a questa famiglia. E' il punto più scabroso del suo lavoro, chiarisce l'autore. Egli riprende qui le accuse già mosse nelle altre sezioni, come "a margine", e le raggruppa in una disamina dell'opera. 

Interessante come, a margine, definisca le raccolte di racconti con cornice (Le Mille e una Notte, il Decameron...) come "romanzi multipli", composto ognuno di racconti che sono "brevi romanzi". Essi quindi sfuggono alla critica che egli muove a Zola di assenza di unitarietà, perché la possiedono a livello multiplo al loro interno.

Il primo proprietario del volume ha evidenziato in rosso la conclusione in cui Sava spiega come Zola "non fa solo guerra all'arte, ma mina le basi della società". Egli poi sostiene come un pittore che realizzasse una versione illustrata fedele delle opere di Zola finirebbe in prigione in base alla legge, ma potrebbe protestare la sua innocenza per via del fatto che Zola l'ha già realizzato e nessuno gli ha detto niente. Il buon Sava insomma immagina il graphic novel.

Sava resta laicista: la guerra degli Enciclopedisti alla chiesa è una guerra giusta, perché usa la ragione; così come equa è la guerra di Darwin oggi che dimostra come l'uomo discende dalla scimmia, e questa dal verme, e questo dalla cellula primordiale.

Tuttavia, se questo è in punto di principio giusto, divulgarne le conseguenze nichilistiche è sbagliato. "Se Dio non ci fosse, bisognerebbe inventarlo", per mantenere l'ordine sociale, proprio quello democratico e repubblicano dell'Occidente francese, che richiede adesione spontanea ai valori civili, a differenza del despotismo orientale. Sava, come orientale, dichiara di essere in grado di veder meglio la situazione francese e occidentale proprio per via del suo sguardo esterno.

Egli inoltre non condanna in assoluto la rappresentazione del vizio: ad esempio, lo ritiene legittimo ne "Les liasons dangereuses", proprio perché il vizio viene condannato. Ma in Zola non avviene. E "uno scrittore che non ha il coraggio di marchiare a fuoco i viziosi deve spezzare la sua piuma" (evidenziato in blu dal proprietario).

L'assenza di condanna morale da parte di Zola, propria dell'impersonalità del narratore naturalista, è oggetto di vibrante condanna da Sava, poiché si estende anche all'assassinio dello zar di Russia, Alessandro II, vittima di tre attentati tra il 1879 e il 1881, l'ultimo letale.

Dopo questo attacco finale e definitivo, si chiude sciovinisticamente ricordando come "Voltaire, Rousseau e Diderot hanno scritto il romanzo", e come gli hanno donato la caratteristica francese dell'eleganza stilistica e della musicalità della lingua, che Zola fa perdere.

Stampato presso la tipografia Chamerot e Renouard, in rue des Saint-Peres 18, e pubblicato dalla Librarie de la Nouvelle Revue con sede in Boulevard Montmartre 18.