Giosuè Carducci, "Satana e Polemiche Sataniche" (Zanichelli, 1878)

 


“L’inno a Satana” di Carducci è uno di quei testi che avevo piacere di possedere, come indubbia curiosità storica legata al primo Nobel della nostra letteratura, oggi di fatto estromesso dal canone letterario che si insegna a scuola (chissà che non c’entri anche, un po’, quel “peccato giovanile” del Poeta Vate dell’Italia unita).

Composto nel 1863 per un simposio privato, e stampato per la prima volta nel 1865, nel 1869 venne riedito per celebrare l’avvio del Concilio Vaticano I, che anticipa di un anno la momentanea caduta dello Stato della Chiesa e del potere temporale dei papi.

Questa edizione XIII, da Zanichelli, per ricche Lire Una, è carina per varie ragioni, oltre che per essere l’unica versione ottocentesca, in vita dell’autore, che si recupera facilmente online. Il numero non è male, innanzitutto, satanico il giusto; e poi il 1879, anno dell’edizione, è quello in cui Carducci viene a Mondovì presso il regio Liceo come ispettore, e ne trae spunto per i versi del “Dolce Mondovì ridente” un tempo celebri nel monregalese, in Piemonte (1890). Questa edizione Zanichelli mira di certo un po’ all’efficacia commerciale di quel “Satana” sparato a caratteri cubitali in rosso, e allega anche le successive “polemiche sataniche”.

La lirica è nota, e si reperisce facilmente online: Satana è invocato come “re del convito” “mentre nei calici il vin scintilla sì come l’anima nella pupilla”. Il fatto che la poesia sia composta durante un reale convivio massonico o paramassonico accentua il frisson diabolico, anche perché il parallelo allo scintillio del vino come quello dell’anima secondo me vuole avere un blando, erudito retrogusto diabolico, evidenziando come il vino sostituisca, nei riti civilizzati, il sangue: non solo in quelli cristiani, ma anche, prima ancora, in quelli pagani, dove il vino diviene un sostituto di un più energico fluido vitale da assorbire (ancora i congiurati di Catilina, pare, bevvero da una coppa di sangue per sigillare il patto).

L’unione mistica di Terra e Cielo, “imene arcano”, rimanda invece alle antiche ierogamie. Il “vade retro Satana” del prete non serve più e il “brando mistico” dell’arcangelo Michele, quello delle crociate, si arrugginisce: che, in un contesto risorgimentale (siamo all’indomani del 1861) ha anche il senso di dire che le scomuniche latae sententiae contro Savoia, massoneria e stato unitario servono a ben poco. 

Il Satana che lui celebra, chiaramente, è il dio classico, vitalistico, Agramane (Arimane), Adone, Astarte. Interessante notare che Leopardi aveva abbozzato un inno ad Arimane, poi abbandonato, dove Arimane, similmente a quanto fa Carducci qui, era il simbolo del vitalismo della natura. Adone era stato celebrato da G.B.Marino, in un’opera che aveva suscitato alcuni dubbi già all’epoca, nel ‘600, per come Adone si veniva a porre come figura cristologica antelitteram (come qui Satana si sostituisce al Cristo nel culto tributato tramite il vino). Astarte rimanda a Ishtar e quindi a Venere, prontamente evocata.

“Il nazareno”, minuscolo, è detto con sprezzo “barbaro” per aver distrutto i templi del dio. Si parla del mentore per significare i discepoli, ovviamente, ma con un rimando a Cristo nel tempio che caccia i mercanti. Dopo tale distruzione, che avvia il medioevo, il dio pagano sopravvive nella plebe dei casolari. Interessante notare che altrove Carducci pone nei “comuni rustici” il fondamento della moderna rinascita d’Italia, con impeto mazziniano; custodi della democrazia e anche degli antichi culti.

Qui le streghe conservano la fiaccola diabolica e la passano all’alchimista, al mago (secondo una transizione riconosciuta, in modi diversi, da Agrippa e Paracelso), e anche al Monaco, che nei testi custoditi nei monasteri sente spirare la sua voce classica, tra Virgilio e Orazio. 

Wicliff, Hus, Savonarola, Lutero sono frutto di questa ribellione dei monaci, che per i massoni italiani anticipa il loro nume tutelare, Giordano Bruno, monaco, ma eroe di conoscenza e sostenitore dell’eliocentrismo, e per quello bruciato sul rogo nel 1600 (gli erigeranno una statua in Campo dei Fiori nel 1889).

Ma la vittoria finale giunge ora, nell’800, con “l’infrenabile carro del foco”, la ferrovia, che porta “Satana”, il progresso, “di loco in loco”, cancellando le superstiti sacche conservatrici. Anche la Mondovì visitata da Carducci si era da poco collegata alla ferrovia, dopo ardue battaglie, nel 1875; nel 1878, nell’anno scolastico “carducciano”, invece avveniva il primo servizio fotografico in città.

Le Polemiche Sataniche partono dalla lettera critica dell’amico Quirico Filopanti a Enotrio Romano, come Carducci si era firmato. Lo critica in quanto antidemocratico: il popolo non capirà un tubo della lirica dotta, e quel che capirà lo farà inorridire.

Rischia di fare come Petruccelli della Gattina, che ha scritto un romanzo dove l’eroe è Giuda (probabilmente con venature gnostiche, e qui ora capisco da dove viene il Premio Petruzzellis della Gattina nel Pendolo di Foucault di Eco).

Carducci si difende dalle accuse in un modo che, lascia intuire un progressivo distacco dall'Inno a Satana man mano cresce la sua importanza. L’ha detto per pochi amici nel 1863, ne ha stampate poche copie nel 1865, e subito tutti si sono lanciati a ristamparlo in copie pirata, democratici e massoni, “senza farmene un cenno avanti”. Oggi direbbe: “era solo un post su facebook”. Troppo buono il Popolo che dice che l’hanno eletto in consiglio comunale a Bologna per l’Inno a Satana, figurarsi, dice Carducci (sento proprio il barone universitario che sbuffa per la sua opera più nota, è Eco che, sia pur con ironia, dichiara “odio il Nome della Rosa”, che eclissa tutto il resto).

Le sue divinità, sintetizzate in Satana, sono Natura e Ragione, sono l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità medioevale. E alla fine, con uno scatto d’orgoglio, Carducci comunque rivendica: sì, “Noi siamo satanici”. E aggiunge nuovi nomi alla schiera: i comuni medioevali, esplicitamente, poi Lutero, e quindi la rivoluzione francese (assente nell’originale). Tra gli autori, rivendica il Paradise Lost di Milton. I filosofi antichi, gli scienziati moderni, gli illuministi, tutti ripetono il suo mantra: “Mangiate il frutto della conoscenza e sarete come Dio”. Alla fine, aggiunge ai suoi mentori morali anche Shelley, da cui si era inizialmente distaccato, dopo la spiegazione dell’amico Giuseppe Chiarini.

A dicembre 1869 Carducci dà una nuova risposta a un anonimo critico che si firma K., che circoscrive il suo Satana alla ribellione, mentre è invece il vitalismo pagano. Se verso Filopanti è rispettoso, con questo critico spara a palle incatenate, ammettendolo (“è vero, sono un po’ amaro con lui”) e, approfittando del fatto che “Il diritto” è un giornale fiorentino, se la prende con il Ministro dell’Istruzione che si comporta in modo clericale: a dimostrare che il suo provocatorio “satanismo” non è inutile o fuori tempo.

Nel mezzo, trova il modo di dire, “francamente e satanicamente”, che l’opera del Manzoni “ha tanto nociuto all’Italia”, “rinfiancando il cattolicesimo”. L’idea che sta prendendo piede, dice Carducci, di rendere i Promessi Sposi “unico e sommo esempio” nelle scuole è il Male (spiace, Giosuè, quella battaglia l’hai persa). In fondo, se Manzoni crea gli Inni Sacri, Carducci crea l'Inno Satanico ad essi opposti.

A Kappa che gli oppone che a Satana si potrebbe sostituire Geova (ovvero, fare di Geova il motore del progresso) egli oppone che “Il mio Satana è un ebreo errante”, con una spada in mano e una fiaccola nell’altra. E un giorno arriverà sulla cupola di Michelangelo, e sotterrerà Geova. “Codesto vecchietto dio, che ne paia a Kappa, è vivace”, ma i satanici vinceranno, spiega Carducci.

In una ulteriore polemica del 1871 riconosce i debiti con Michelet, con Heine, Quinet, e Proudhon. In quella del 1876 dichiara “di quel Satana ormai ne ho fin sopra gli occhi, sono stufo, più che stufo”. Ribadisce i soliti concetti: ha ripreso Satana, e non il Prometeo di Monti e Shelley, perché quello l'hanno già omaggiato loro; lui vuole parlare di una cosa ancora diversa, ovvero il diabolico non fuori dalla chiesa, ma interno ad essa: cancella il paganesimo classico ma finisce per accoglierlo in seno, e nel demonizzarlo lo rende seducente. Gregorio XVI “titolava d’invenzione diabolica il vapore”, e da qui la sua esaltazione della ferrovia che, portando il progresso per ogni dove, cancella il regno della superstizione. Per ultimo prende le distanze dal Satana di Baudelaire ne “I fiori del Male”, che nel 1863 non conosceva.


Insomma, un'opera forse minore ma indubbiamente curiosa, che anticipa le posizioni degli scapigliati e mostra l'occultismo carducciano, forse meno superficiale di quel che il poeta voleva mostrare.

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