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L'Ariosto Rovesciato




Mi è capitato di recente di rileggere il XXXV Canto dell'Orlando Furioso di Ariosto, dato che di recente avevo casualmente scoperto che un certo De Barberis è il primo pittore ad aver realizzato una serie di affreschi dedicato all'Orlando Furioso, a metà '500. Ma di questo tratterò in un post successivo.

Il XXXV canto è quello che conclude l'avventura di Astolfo sulla Luna. La vicenda è nota anche se spesso poco approfondita: Orlando è impazzito per l'amore non corrisposto di Angelica, che invece si è concessa al soldato saraceno Medoro, e quindi il paladino, spogliatosi dell'armatura come un Hulk rinascimentale, va in giro distruggendo tutto ciò che trova, amici e nemici.

Ecco allora che Astolfo, nelle sue peregrinazioni con l'Ippogrifo, compie una sorta di sintesi del viaggio dantesco. Trova la porta degli inferi, scende all'inferno e incontra qui Lidia, una donna punita per la sua crudeltà contro il suo amante, che ella non ha contraccambiato ma ha sfruttato. Dopo questo episodio, il fumo infernale impedisce ad Astolfo di proseguire e torna indietro.

L'episodio è perfetto perché rovescia quello di Francesca da Rimini, la prima figura presentata ampiamente nell'inferno dantesco, punita per aver ceduto all'amore, non per aver resistito. Già Boccaccio, nella Storia di Nastagio degli Onesti, aveva compiuto un simile rovesciamento, ripreso da Botticelli in quattro pannelli di protofumetto nel 1478.

Ariosto si mette sul loro solco, naturalmente: il peccato non è quello contro la castità ma quello contro l'amore, forza naturale. Anche coerente che Astolfo non prosegua: Dante si convince dopo Francesca che la sua devozione ai Fedeli d'Amore è errata e quindi prosegue un percorso di purificazione, Astolfo (e Ariosto) condanna la durezza di Lidia e quindi torna indietro, non ha altro da imparare.

Comunque sia, uscito dall'inferno, Astolfo sale il monte del purgatorio e alla sommità trova San Giovanni, l'autore dell'Apocalisse, assieme a Enoch ed Elia. C'è già qualcosa di potenzialmente blasfemo in tutto questo, perché gli apostoli nei vangeli trovano Cristo che è su un'altura a parlare con Mosè ed Elia.
O almeno così capisce Pietro, che comprende sempre poco; le altre due figure luminose spariscono in una nuvola che li avvolge, in un brano che piace abbastanza agli archeoastronomi. Presumo che vi sia una possibile lettura delle altre due figure come le altre due persone della Trinità; ma non mi ci addentro. 

La sostituzione di Mosé con Enoch (autore di numerosi testi apocalittici apocrifi) è interessante perché rimanda alla letteratura mistica medioevale sull'Apocalisse, in modo spurio. Dante infatti non lo cita, ma molte mistiche ne fanno una figura rilevante (vedi qui). 

Come noto, San Giovanni, col carro del fuoco di Elia, conduce Astolfo sul cielo della Luna, il primo grado dell'ascesa dantesca, l'unico che Astolfo compie, sempre in quanto funzionale alla sua missione.

Astolfo come sappiamo ritrova il senno in una boccia e lo riporta indietro sulla terra, dove viene reinserito nel cervello di Orlando per via nasale. Orlando rinsavisce, torna a combattere e sconfigge i saraceni.

Non avevo mai letto con attenzione il canto 35, che è quello di congedo di Astolfo da San Giovanni. Anche perché la prima parte è una parte encomiastica del cardinale Ippolito d'Este oggettivamente servilissima: Astolfo vede i destini futuri, ancora sulla Luna, e si accorge di questa grandiosa figura che apparirà intorno al 1480, quando mancano vent'anni al M e al D.

San Giovanni, prima di congedarsi, tiene un discorso che è forse il più interessante del poema. Lo riporto qui a seguire:

25
Non sí pietoso Enea, né forte Achille
fu, come è fama, né sí fiero Ettorre;
e ne son stati e mille e mille e mille
che lor si puon con veritá anteporre:
ma i donati palazzi e le gran ville
dai descendenti lor, gli ha fatto porre
in questi senza fin sublimi onori
da l’onorate man degli scrittori.

In sostanza, gli eroi troiani, greci e romani, esaltati da Omero e Virgilio, non sono poi così grandi, ma sono tali solo per via del mecenatismo interessato dei loro discendenti. In questo modo quella volte dell'Ariosto annulla del tutto tutta la parte encomiastica del poema, per chi sa leggere tra le righe. Ed è solo l'inizio.

26
     Non fu sí santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun sapria se Neron fosse ingiusto,
né sua fama saria forse men buona,
avesse avuto e terra e ciel nimici,
se gli scrittor sapea tenersi amici.

Il concetto si sviluppa non solo attenuando la gloria di Augusto, ma anche mettendo in dubbio la malvagità di Nerone, che non ha saputo tenersi buoni gli scrittori. Ariosto è "Cicero pro domo sua", chiaramente, e con un filo d'ironia. Ma con quel filo d'ironia, insomma, sta rivalutando quello che, proprio nell'Apocalisse di Giovanni, è la Bestia 666, la prima incarnazione dell'Anticristo. E poi prosegue su questa linea. Nerone poteva aver avuto contro "Terra e Cielo", e avrebbe fallito: ma se avesse avuto dalla sua gli scrittori, Giovanni e altri, avrebbero tramandato una sua memoria positiva: e la fama che sarebbe rimasta sarebbe stata quella.

27
     Omero Agamennón vittorïoso,
e fe’ i Troian parer vili et inerti;
e che Penelopea fida al suo sposo
dai Prochi mille oltraggi avea sofferti.
E se tu vuoi che ’l ver non ti sia ascoso,
tutta al contrario l’istoria converti:
che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.

San Giovanni prosegue rincarando la dosa ad ogni ottava narrativa. Se vuoi conoscere la verità, spiega ad Astolfo e al lettore, rovescia completamente la storia propagandistica scritta dai vincitori. I Greci non vinsero a Troia, ma presentano quella spedizione come vittoriosa (interessante che, se sull'Iliade poco possiamo dire, sappiamo che le imprese di Orlando a Roncisvalle, da cui riparte lo stesso Ariosto, trasformano una sconfitta in una vittoria). 

Similmente, anche Ulisse non viene risparmiato, e la casta Penelope che resiste ai Proci è ovviamente solo la versione ufficiale della storia, mentre in realtà sicuramente ha ceduto ai nuovi dominatori nei dieci anni di assenza del marito. E a questo punto San Giovanni sferra l'attacco finale.


28
     Da l’altra parte odi che fama lascia
Elissa, ch’ebbe il cor tanto pudico;
che riputata viene una bagascia,
solo perché Maron non le fu amico.
Non ti maravigliar ch’io n’abbia ambascia,
e se di ciò diffusamente io dico.
Gli scrittori amo, e fo il debito mio;
ch’al vostro mondo fui scrittore anch’io.

A rovescio, Didone (Ellissa) viene descritta di facili costumi perché Virgilio racconta la versione dal punto di vista dei Romani. Ma la cosa sorprendente, su cui poi Ariosto abbandona prudentemente il discorso, è che San Giovanni rivela che "fa il debito suo", e confessa che "al vostro mondo fui scrittore anch'io".

In teoria, se letto coerentemente con quanto detto dal resto del canto, San Giovanni dice che anche i suoi lavori come scrittore sacro sono stati fatti in un'ottica opportunistica, e quindi il suo Vangelo e la sua Apocalisse vanno letti come opere di propaganda, e quindi letti "al contrario" (stando a quanto ha detto prima). Ovvero, la figura di Cristo è mitizzata, e anche lo scontro infernale tra Bene e Male va ridimensionato a opera di propaganda, dove Lucifero magari è un buon diavolo e non ha tutti i torti.

E' noto che l'Indice dei Libri Proibiti, inizialmente severissimo nel 1559, venne attenuato ad opera di Michele Ghislieri, inquisitore generale di Roma e membro autorevole della commissione, che sarebbe di lì a poco divenuto vescovo di Mondovì nel 1560 e poi papa Pio V nel 1566, l'attuatore della controriforma.

Ghislieri, nella sua lettera del 27 gennaio 1559 diretta all'inquisitore di Genova, espresse le sue riserve sulle proibizioni dei testi letterari.

«Di prohibire Orlando [Innamorato e Furioso], Orlandino [del Folengo], cento novelle [probabilmente Boccaccio] et simili altri libri più presto daressemo da ridere ch'altrimente, perché simili libri non si leggono come cose a qual si habbi da credere ma come fabule, et come si legono ancor molti libri de gentili [pagani] come Luciano Lucretio et altri simili»

In sostanza, Ghislieri pose una moderazione nell'atto censorio, ovvero di colpire più la saggistica che non la narrativa, che non è pensata per essere creduta realmente, e quindi censurarla è controproducente perché sembra mostrare di credere davvero in ciò che è invece finzione. 

Tale linea di Ghislieri, probabilmente oltre il suo volere, consolida una linea di pensiero esoterico occidentale, che spesso maschera una rivelazione iniziatica all'interno di un'opera di fantasia, più agevole ad agire sul pubblico (curiosamente, per ragioni artistiche, per Ghislieri non è da censurare nemmeno Lucrezio, che si legge per piacere, anche se non può ignorare che il De Rerum Natura è profondamente imbevuto di ateistico pensiero epicureo).

L'Orlando Furioso è l'anticipazione di tale strategia? Di sicuro, col suo stile leggero ha contribuito alla laicizzazione della cultura, più ancora di quanto forse si ritenga.

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