Histoire des Variations des Eglises Protestantes (edizione 1734)
Interessante ritrovamento per la mia collezione di settecentine a Torino, la scorsa domenica.
L’Histoire des variations des Églises protestantes (in italiano: Storia delle variazioni delle Chiese protestanti) è l’opera teologica più celebre del vescovo francese Jacques-Bénigne Bossuet (1627–1704), uno dei massimi oratori sacri e pensatori religiosi del classicismo francese.
Fu pubblicata per la prima volta nel 1688, e il mio esemplare del 1734 appartiene a una delle numerose ristampe settecentesche, segno della diffusione e dell’influenza duratura del testo nel mondo cattolico.
L’edizione del 1734 appare con il nome degli editori Desprez & Desessartez (o Desprez & Desessarts) in Francia. Il testo di Bossuet rimaneva un classico della controversia cattolica, e quindi le ristampe servivano a soddisfare lettori cattolici, seminari, biblioteche aristocratiche.
L’intento dell’opera è confutare il protestantesimo mostrando che le sue molteplici “Chiese” – luterana, calvinista, anglicana, ecc. – si sono contraddette e modificate nel tempo, perdendo così ogni pretesa di continuità con la fede apostolica.
Secondo Bossuet, questa instabilità dottrinale prova che la vera Chiesa non può che essere quella cattolica romana, rimasta invariata nei secoli.
In sintesi, è una apologia del cattolicesimo attraverso una critica storica del protestantesimo.
Bossuet adotta un metodo storico-critico, relativamente moderno per l’epoca: confronta confessioni di fede, atti sinodali, lettere, testi teologici dei riformatori, e li cita letteralmente.
Tuttavia, il suo intento non è neutro: la storia è costruita per servire una dimostrazione apologetica.
Lo stile è quello tipico del classicismo francese: eloquente, limpido, solenne, ma anche logico e rigoroso. Bossuet combina l’erudizione con l’arte dell’oratore sacro, creando un equilibrio fra forza retorica e chiarezza argomentativa.
Il concetto centrale è espresso già nel titolo: la “variazione” (cioè il mutamento dottrinale) è la prova che una Chiesa non possiede la verità.
La Chiesa cattolica, che mantiene la stessa dottrina attraverso i secoli, dimostra invece di essere la vera depositaria della fede.
“La verità è immutabile come Dio stesso; l’errore muta di volto, perché nasce dall’uomo.”
(Bossuet, Préface)
Già tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, diversi teologi protestanti reagirono all’opera di Bossuet, ribaltando il suo argomento:
se la “variazione” è segno di errore, allora anche la Chiesa cattolica, che nel corso dei secoli ha mutato dogmi, riti e discipline, non può pretendere di essere immutabile.
Pierre Jurieu, teologo ugonotto di Rotterdam, pubblicò nel 1689 la Réponse à l’Histoire des variations, accusando Bossuet di “cieca idealizzazione” di Roma e mostrando come la Chiesa cattolica stessa si sia contraddetta su sacramenti, autorità papale, liturgia e libertà di coscienza.
Successivamente, autori come Jean Le Clerc e Jacques Basnage de Beauval, entrambi riformati e vicini ai circoli eruditi olandesi, ampliarono la polemica in senso storico-critico, sottolineando che tutte le religioni, nel tempo, subiscono trasformazioni.
Il concetto di “variazione”, pensato da Bossuet come accusa, diventò nelle mani dei protestanti e dei filosofi una categoria di analisi storica.
Pierre Bayle, con il suo Dictionnaire historique et critique (1697), mostrò che la diversità delle opinioni è inevitabile e che la tolleranza è una virtù razionale.
Montesquieu e Voltaire, un secolo più tardi, ripresero implicitamente il principio: le religioni cambiano come cambiano i costumi, e nessuna può pretendere di possedere la verità assoluta.
Montesquieu, nello Esprit des lois, mostra che le istituzioni (anche religiose) si adattano ai climi, ai costumi, ai tempi. La “variazione” è dunque una necessità storica, non un peccato.
Voltaire, nei Questions sur l’Encyclopédie e in alcuni capitoli del Siècle de Louis XIV, riconosce a Bossuet uno stile grandioso, “le plus grand orateur de la chaire”, ma lo accusa di essere schiavo del principio d’autorità e di “avoir voulu réduire la foi à la chronologie”.
Nel suo Essai sur les mœurs (1756), ribalta completamente la prospettiva:
“Les religions ont varié comme les gouvernements, parce qu’elles sont des ouvrages des hommes.”
È, di fatto, la negazione sistematica della tesi di Bossuet.
Voltaire scrive il suo Essai sur l’histoire générale et sur les mœurs des nations (1756) come risposta secolare al Discours sur l’histoire universelle (1681) e, indirettamente, all’Histoire des variations.
→ Entrambi vogliono leggere il corso delle religioni nella storia, ma per Bossuet è la prova della verità cattolica, per Voltaire la prova dell’evoluzione dell’uomo.
Diderot lo menziona nelle sue Pensées philosophiques e più tardi nell’Encyclopédie, come esempio di “grande esprit dans un petit cercle”.
Gli riconosce una forza intellettuale enorme, ma incapace di vedere che la diversità delle opinioni religiose non è un male, bensì il segno della libertà umana.
Rousseau, nel Contrat social, ne riprende l’eco quando distingue la religion civile (utile, sociale) dalla religion théologique (divisiva). Anche per lui la molteplicità delle fedi è inevitabile: non è variazione dall’errore, ma espressione della pluralità naturale del cuore umano.
Perfino gli enciclopedisti, nella voce “Bossuet” del Dictionnaire raisonné, ammiravano il suo genio retorico ma criticavano la sua fede cieca nell’immutabilità del dogma.
Nella voce Bossuet dell’Encyclopédie (attribuita a Louis de Jaucourt), si legge:
“Il a combattu l’erreur avec éloquence, mais avec la haine de l’erreur; il a cru servir la vérité en la rendant odieuse.”
Così, il confronto cattolico-protestante sulle “variazioni” divenne il punto di partenza di una filosofia storica della religione, che riconosce la relatività delle forme di fede e prepara la critica dei dogmi in nome della ragione.


