AndroMalis, "Dylan Dope" (Yawn Comics)
Il primo numero della miniserie ci fa subito precipitare nel Trash Trip Show di questa unica stagione dylandopata. Il "Club del Trip" con cui si apre l'albo è a firma di Simone Lucciola, compagno di scorribande corazziniane di Andromalis, e mantiene in vita il gioco letterario (se è poi tale) di Dylan Dope come vero, definitivo reload del grande classico "giallhorror" degli anni '80.
Dopo la fine della gestione di Roberto Recchioni (2013-2023), il nuovo tentativo di ridare vita al DD nazionale dovrebbe esser dunque vista - il condizionale è d'obbligo - come duplice: da un lato la "restaurazione dylaniata" sulla testata principale, condotta dalla brava Barbara Baraldi in un estenuato e decadente (e perciò in fondo affascinante) manierismo dell sclavismo, dall'altro il vero reboot assoluto, con la completa "decapitazione" del personaggio: via la testa di Rupert Everett, il nome, Groucho (questo già ucciso, pro tempore, da RR ai suoi tempi ormai passati) e tutto l'Amba Aradan incluso il cast classico di sceneggiatori e disegnatori, sostituito dal solo Andromalis come titanico Atlante underground in grado di reggere l'intero peso di Dylan quale architrave del macilento fumetto italiano.
Ecco quindi che il Dylan Dope di Andromalis si apre con le tavole allucinatorie cui l'autore ci ha abituati nelle altre sue opere, una lunga sequela di non-sequitur fumettistici che giustappone immagini del trash pseudotelevisivo trasposto su carta per generare la melassa blob da cui emergerà l'eroe dylaniato (una melassa molto simile a quella che tutto avvolge in Mickey Mousse, del resto).
La catastrofe in diretta webtv con tanto di social reaction permette di introdurre il personaggio antagonistico di Don Vitello, "minotauro globale" simbolo del turbocapitalismo consumistico, e anche l'ispettore Bloch di questa dimensione parallela, l'ispettore Knock, il quale va a chiedere l'aiuto di Dylan per il nuovo caso, portando infine alla tardiva e pigra apparizione dell'(anti)eroe (Knock e Groucho, reinterpretato in Skitz, uno spermatozoo da un metro e mezzo, diventano qui trasparenti metafore fallico-sessuali esplicitando in modo grottesco l'elemento erotico-macho che nel primo Dylan rimaneva subliminale). Se Xabaras era il mostro-capitalismo della tecnoscienza in fondo affascinante nel suo estremismo faustiano, qui c'è la morte di ogni romanticismo e il minotauro è solo una belva stupida e arrogante che si dibatte nel suo labirinto distruggendo tutto ciò che incontra, come sarebbe piaciuto a Varoufakis.
Questo Dylan alternativo è afflitto da Emolisergia, un sangue naturalmente allucinogeno che viene salassato da vampiri tossici, i quali gli permettono così di non andare in overdose, ma è comunque perennemente in uno stato alterato che, pare di intuire, diviene qui il correlativo oggettivo del quinto senso e mezzo dell'originale, sostituendo alla sottile intuizione il delirio totale, Dylan come il rospo Bufo produttore della bufotenina allucinogena in forma sanguigna.
La marcescenza del mondo di Dylan Dope è poi lampante allegoria della progressiva liquefazione della cultura pop, e quindi anche della particolare condizione patologica del protagonista: le "forze dell'ordine narrativo", di cui Knock è rappresentante, vorrebbero un Dylan che, pur continuando a introdurre un po' di linfa vitale tramite l'anomalia emolisergica, la curi in modo di renderla accettabile.
Un po' come, nel nostro mondo parallelo, Dylan Dog è stato progressivamente normalizzato, dall'angoscia a volte potentissima dell'era Sclavi alla stabilizzazione sotto Marcheselli e alla sostanziale sterilizzazione dell'era Gualdoni, fino al tentativo sotto Recchioni di un parziale recupero della vitalità originaria in nuova forma, fino alla attuale fase di dichiarata "restaurazione dylaniata".
Il secondo introvabile numero avrebbe introdotto la figura di Frankestar, una sorta di tentacolare Frankenstein chtulhiano con una luminosa e blasfema profezia. Mi compiace la citazione del "Frankenstein" dylaniato, uno dei molti albi-chiave della reinvenzione patetica dei mostri classici (nel caso del mostro di Victor, riprendendo il patetismo inquietante già presente in Mary Shelley). Come noto, Groucho avrebbe dovuto essere Marty Feldman nelle parti di Igor, il gobbo assistente dello scienziato nel Frankenstein Junior di Mel Brooks, quindi quest'albo coglie un punto importante (e poi, mi piace ricordare che sulla ristampa del DD originario apparve una mia poesiola dylaniata come si usava all'epoca, quindi è un numero che mi è specificamente caro).
Ci traghettiamo poi nel terzo numero, Voodoo Pop, con introduzione di Massimo "Truculentboy" Onza, che giustamente evoca Clay Wilson, Robert Crumb e Jacovitti nella delirante sintesi andromaliana.
Il Voodoo Pop del titolo è quello della tv di un Elvis Bonanotte / Baron Samedi, il cui orrore è mostrato nella degenerazione parodistico-orrorifica, mentre affronta Dylan in una psicotica puntata di un suo gioco a premi. Continua lo stile di affastellamento di elementi di cultura pop in un blob informe di matrice per certi versi enrico-ghezziana, rielaborando stilemi del trash televisivo fino a renderli disturbanti tramite esasperazione e ripetizione. Ritornano frequenti gli spot a tutta pagina di Don Vitello, preparando già lo scontro finale che troveremo nel quinto albo. Più ancora che Don Vitello, che è il suo finanziatore (un Berlusconi taurinizzato?), è questo Bonanotte, marcata parodia del presentatore idealtipo, l'equivalente xabarasiano del mondo di Dope, dove allo scienziato classico si sostituisce il tecnico televisivo per eccellenza. Entrambi del resto col voodoo manipolano zombie, quelli reali o i telespettatori defunti sul divano, non fa molta differenza.
La grande vagina che divora Dope col finale dell'albo ricorda quella del numero 100 di Dog, e introduce la discesa agli inferi psicotropi del volume 4, "Amphetamind", da cui l'eroe riemerge nel quinto albo conclusivo, "Apocalipse Low", che conduce alla lenta disgregazione di questo instabile cosmo narrativo parodistico.
Dopo "Il club del trip" questa volta a firma di Valerio Bindi. Pur nel prosieguo del tono allucinatorio, questa ultima storia trae le fila della miniserie e ha quindi un ritmo narrativo più coeso, portando allo scontro finale con il minotaurico Don Vitello, capitalista-boss.
Il finale aperto conferma la natura polemicamente metanarrativa della miniserie, che collega la decomposizione avanzata della cultura pop a quella del capitalismo. La contemporaneità, così, non può essere raccontata che tramite "un fumettone a frammentazione narrativa", perché solo questo cut-up di frammenti diversi può restituire uno specchio minimamente credibile del nostro reale (come avveniva anche nel Dylan originario, con almalgama molto diverso, e più omogeneo ovviamente nel risultato finale).
Una trilo-pentalogia, dunque, che si pone come una parodia abbastanza caustica dell'originale, con però l'ambizione, riuscita, di utilizzare Dylan non come gioco-nerd di decostruzione meramente narrativa, ma per tramutarla in un pretesto per leggere - con critica legittimamente sulfurea - la nostra contemporaneità.
Un altro tassello dell'allucinazione collettiva che AndroMalis va intessendo con le sue opere, una riflessione sarcastica ma acuta sulle contraddizioni del nostro presente tramite lo specchio deformante del suo mondo contorto e corrotto, decostruendo grandi archetipi come Topolino e i Super, e ora appunto l'italico alfiere bonelliano.
Non sarebbe male, forse, vedere Dylan Dope e AndroMalis ospiti su un Dylan Dog Color Fest o realtà paragonabili: porterebbero forse un po' di linfa vitale a un eroe ormai prosciugato (dopo ormai quasi quarant'anni) della sua iniziale linfa lisergica.